
Behind the Scenes of the Opera – Intervista al regista Roberto Catalano
Il secondo appuntamento di questa rubrica dedicata al “Behind the Scenes of the Opera” ci porta da Roberto Catalano, regista palermitano che di dietro le quinte se ne intende. A partire da un approfondimento sul suo Trovatore, andato in scena al Teatro Fraschini di Pavia per la stagione 2021/2022, ci racconta del processo creativo e del suo legame con le altre figure degli allestimenti operistici, con il suo modo di fare generoso e appassionato.
Si potrebbe dire di Roberto Catalano che è un figlio d’arte, nel senso che quest’incontro è avvenuto in un’età talmente tenera da permettere all’arte di formarlo e legarlo a sé per sempre. Giovanissimo palermitano, ha mosso i primi passi come danzatore per il Teatro Massimo, e lì la magia è accaduta. Roberto è, come molti lavoratori dello spettacolo, uno che ha trascorso moltissimo tempo a osservare, dietro le quinte, e ad assistere (nel duplice senso di rubare i segreti del mestiere e di supportare gli allestimenti). Finché non ha potuto avere uno spazio tutto suo, con il Pollicino di Hans Werner Henze nel 2012, e una serie di riconferme sul fatto che sì, era giunta ora di fare questo mestiere e di farlo in prima linea. Nel 2014 la vittoria del bando di regia indetto dalla Fondazione Orizzonti d’Arte di Chiusi, poi il sodalizio con il Teatro Sociale di Como (che, confessa, frequenta sempre come una seconda casa) dal 2016, e da allora la sua firma circola tra le fondazioni lirico-sinfoniche, da Parma a Tenerife. Al Teatro Fraschini ha portato Il Trovatore di Giuseppe Verdi, di cui mi ha raccontato in modo generoso e appassionato per il secondo appuntamento della rubrica “Behind the Scenes of the Opera“.

Ripensando allo spettacolo qualche giorno dopo, realizzo che dentro di me si è sedimentata la cenere, e che il primo sentimento a cui penso è quello della vergogna, di una sorta di peccato irrimediabile e indimenticabile. Effettivamente, la storia del Trovatore è quella di un trauma individuale e familiare, quello di Azucena, che avviene però in una struttura sociale che facilita simili lacerazioni (siamo nel tempo della medievale caccia alle streghe, e Azucena vede morire la propria madre arsa viva e per errore, nel tentativo di vendicarsi, brucia il proprio figlio al rogo, ndr). Allestendo l’opera, hai voluto rimanere fedele all’ambientazione storica oppure hai tentato la via dell’universalizzazione di queste “macchie” della storia e dell’umano?
Il processo creativo è misterioso e non sempre si può definire al principio se e come si potrà rimanere assolutamente fedeli alle indicazioni di partenza. Io tendo a lasciar parlare il libretto, perché mi fornisce delle suggestioni che fanno da incipit di altri collegamenti ipertestuali, e così riesco ad abbracciare il riferimento storico e poi a estendermi per toccare l’universalità del messaggio. Mi chiedo sempre: quanto c’è di umano in questa storia? Quanto somigliano questi personaggi a ognuno di noi?
Nel caso del Trovatore, la risposta l’ho trovata nel dolore, nel dolore che ha peso diverso ma ci riguarda tutti. E soprattutto nella disperazione che sopraggiunge quando tentiamo di rimuoverlo, quasi a voler disseppellire un’unità originaria e sepolta. Non siamo più integri quando ci tocca il dolore, eppure tentiamo sempre di ritrovare quella dimensione di unità antecedente al momento in cui ci siamo sentiti, per la prima volta, dispersi.
Questa trama è universale e attuale perché racconta dei momenti in cui la vita entra con prepotenza, ti avvolge nella cenere e ti lascia lì dentro. I personaggi del Trovatore non si salvano finché restano in vita: solo i morti si liberano e sfuggono al ciclo infinito della rimozione, dell’ottundimento dei sensi causato dalla cenere. (Nella conversazione Roberto cita una frase da This must be the place, che ha a che fare con la morte in vita, e da qui in poi seguiamo per molto tempo il filo della comune passione per Paolo Sorrentino, ndr).
In questo libretto si ripropone lo schema della donna contesa, apparentemente in balìa dei desideri di altri uomini che finiscono per deciderne il destino. In realtà, ci sono degli elementi estremamente contemporanei, come l’amore di una madre per un figlio non biologico ma cresciuto come tale, l’impossibilità del perdono, l’atto di forza di una donna che uccide sé stessa piuttosto che convivere con l’uccisione del desiderio. Come hai approcciato le figure femminili dell’opera?
Le donne in realtà confermano quanto detto a proposito dell’interferenza della vita. Accade che con Rigoletto, Trovatore e Traviata (la trilogia popolare verdiana, ndr) il melodramma si apre agli imprevisti della vita vera. Intendo dire che, sebbene ci sia una struttura canonica a cui queste opere si attengono, per la prima volta Verdi apre la porta all’elemento – e quindi alla complessità – dell’umano, che è anche fatto di psicologie traballanti e contraddizioni. Le donne di Verdi sono estremamente moderne perché profondamente umane. Sfuggono alla dicotomia imposta da rigidi schemi di bontà o malvagità, hanno tinte fosche e intensi momenti di luce dentro di sé. La grandezza di Verdi sta nell’ammettere queste tonalità di mezzo, nel consentire all’umano di entrare nel racconto e di contaminarlo nel suo svolgersi, a volte imprevedibile. Fu una grande novità: fino a quel momento la borghesia, che costituiva il pubblico privilegiato dell’Opera, era stata abituata a riconoscersi in modelli statici di eroismo. Nel trittico per la prima volta ci sono personaggi un po’ più umani e, soprattutto, donne meno angeliche, più torbide ma anche più dinamiche: si muovono, e molto spesso prima degli uomini!

C’è un’altra cosa che mi è restata negli occhi, giorni dopo lo spettacolo: l’uso della prospettiva. Panovsky ci ha insegnato che non si tratta soltanto di uno strumento tecnico: la prospettiva è un simbolo, oltre a essere stata sintomo di un mutamento culturale importante, cioè l’apertura di uno spiraglio su una parte di mondo sconosciuta. La prospettiva cambia la visione delle cose perché ci insegna che esistono dei modi razionali di disciplinare l’esistenza, ma che molto più spesso alcuni ambiti di realtà sfuggono al nostro controllo. Come è nata in te ed Emanuele (Sinisi, che si è occupato dell’allestimento delle scene) questa intuizione e, in generale, come trovate un punto di equilibrio nel vostro lavoro?
Di solito le mie idee sono, in embrione, delle suggestioni letterarie. Questo significa che spesso le drammaturgie per la scena nascono come racconti: quando scrivo scavo nel testo, nel libretto in questo caso. Poi cerco di uscirne traducendo la ricerca, e tutta la fase di accumulo di spunti e intuizioni, in immagini e riferimenti visivi.
Ormai con Emanuele c’è una sintonia consolidata. Siamo amici oltre che assistenti, e il nostro dialogo si fonda su piccoli gesti, su sguardi, su bozzetti, su scambi che lasciano già intendere che percorso creativo intraprenderemo. Non è stato diverso per la scelta della prospettiva che addensa tutto il materiale di senso emerso dalla ricerca. L’uso del tulle in trasparenza mostra una struttura in fieri, uno scheletro di intenzione, un’aspettativa per il futuro. E contemporaneamente la trasparenza raffigura la distruzione del progetto stesso. É come se non vedessimo mai il tempo presente: piuttosto un racconto, o una proiezione di futuro. L’assetto prospettico ha generato in noi un senso di grande malinconia, di disillusioni, di “grandi speranze” perdute. Il sentimento di una delusione cocente che è poi quello che pervade Il Trovatore, i cui personaggi si muovono tra disincanti e frustrazioni: anche quando la libertà è a un passo da loro, e riescono a vederla, si accasciano a terra incapaci di liberarsi da questo giogo.
Questa è un’opera “popolare” fatta di molteplici scene collettive in cui la musica deve tenere insieme non solo solisti e coro, ma anche i figuranti che costituiscono parte integrante della scenografia. A proposito di divisioni dei ruoli, come ti sei relazionato con un altro giovanissimo, e cioè il direttore Jacopo Brusa?
La musica svolge sempre il ruolo di connettore, è una specie di tessuto che avvolge tutte le scelte sceniche. Nel caso del Trovatore, questo ruolo è ancora più significativo perché nel libretto ci sono spesso incoerenze drammaturgiche, come se mancasse un continuum narrativo di senso. Gli intrecci sono numerosi, le azioni più turpi sono spesso solo annunciate, ma restano sospese nel non detto. La musica salda gli elementi e riempie le mancanze, tiene insieme i vari tempi narrativi e suggerisce la direzione della drammaturgia scenica.
Con Jacopo il rapporto è stato sereno e proficuo. Ci siamo intesi sin da subito sul senso da dare ai suggerimenti dello spartito, per esempio per la scelta dei ritmi gestuali, dei respiri, delle pause. Io credo che il direttore d’orchestra possa essere regista insieme a te, nel senso che a volte io ho bisogno di una certa durata per far respirare un’azione, e altre è lui che definisce gli ingressi necessari alla dinamica che vuole avviare con i solisti. Per Il Trovatore, ho apprezzato la sua scelta di dilatare i tempi di azione in scena e di tenere le ripetizioni dello spartito: mi ha lasciato molto spazio creativo anche perché è stato capace di modulare diversamente le frasi ripetute, in modo che risultassero sempre un po’ diverse.

E’ stato detto di una precedente versione del Trovatore che era “innovativa senza esagerare”. Cosa significa per un regista contemporaneo mettere in scena un’opera che, per musica e libretto, è immutabile e sempre uguale a sé stessa? Si può essere davvero innovativi (o moderni) senza esagerare?
Di certo si può variare nei propri allestimenti: l’opera a volte cambia con te, muta con il mutare delle tue esperienze vissute. Questo accade perché è un flusso magmatico: l’onda d’urto dei sentimenti è eterna e al tempo stesso variabile. L’opera è attuale nel momento in cui c’è uno sforzo continuo di intercettare i fili invisibili che si tendono tra la musica, la storia, e lo spettatore. Non serve sforzarsi di essere “moderni”, qualunque significato abbia: al centro della ricerca non può esserci l’ansia di modernità al limite della cronaca. Il mio obiettivo resta sempre quello di captare, di stare in ascolto ed intercettare il sentimento, perché se quello c’è anche l’allestimento più tradizionale funzionerà e sarà attuale. La sfida reale è individuare il nucleo emotivo cruciale e saperlo trattare.
Dove ti troviamo nei prossimi mesi?
Al Teatro Massimo di Palermo a settembre con Il matrimonio segreto, un dramma giocoso in due atti di Domenico Cimarosa; a ottobre invece saremo al Festival di Wexford con una bella sfida: La tempesta, ispirata all’omonimo capolavoro shakesperiano, composta da Fromental Halevy con libretto di Eugene Scribe (lo stesso sodalizio di Manon Lescaut, ndr).
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