
Behind the scenes of the Opera – Intervista all’attore e coreografo Sandro Maria Campagna
Per la prima puntata della sezione dedicata al “Dietro le quinte dell’Opera”, abbiamo intervistato Sandro Maria Campagna, attore e coreografo che ha lavorato all’allestimento dell’Iphigénie en Tauride di Christoph Gluck, in apertura della stagione operistica del Teatro Fraschini di Pavia.
«Le immense gonne rosse delle danzatrici sono la tempesta che si abbatte sui lidi dei Tauridi mentre il sipario si alza a svelare un eretteo di Cariatidi vive»
(TGR Lombardia)

La regia lirica oggi deve scontrarsi da un lato con la tentazione di non dover dare ragione di sé – in quanto incontestato patrimonio dell’umano – e dall’altro con la necessità di affrontare gli strali del tempo e invecchiare bene, come le tragedie greche o i testi di Shakespeare hanno saputo fare. Forse più che per la prosa, questa attitudine schizofrenica deve misurarsi con un dovere di fedeltà che non è solo al libretto, ma alle richieste irremovibili della partitura musicale. Esiste però uno spazio di negoziazione tra il mimetismo criptico dei respiri musicali, e gli accenti non verbali, eppure eloquenti, delle stesse note. Quella terra di mezzo è occasione generosa di sperimentazione, per sdoganare l’opinione comune che vuole la lirica come genere devoto a una sola musa o, al massimo, al testo letterario che accompagna il canto.
Una parte di azione teatrale si sviluppa attraverso la musica e il canto ma, come denota l’origine melodrammatica della tradizione operistica, è possibile per la lirica sussistere in quanto «spettacolo drammatico nel quale l’elemento musicale può essere chiamato, di tanto in tanto, a rinforzo dell’effetto di singole scene» (Treccani). A conferma di ciò, la definizione che Brooks propone di immaginazione melodrammatica come di una forma di emotività quasi polarizzante – fatta perciò di situazioni dell’essere e dell’agire estreme -, incarica non soltanto la musica, ma anche il gesto, di fornire un nuovo lirismo della rappresentazione fisica (Brooks, 2001).
Le regie di Emma Dante confermano che la potenza di un’idea re-interpretativa può agire in armonia con il rispetto di alcuni pilastri fondativi, e cioè quei nuclei emotivi e antropologici che, come nel caso dell’Iphigénie en Tauride, dall’antico mito si reincarnano nella forma librettistica settecentesca di Christoph Gluck. Una visione, quella registica, che si fa concreta nella coerenza di tutti gli elementi dell’allestimento scenico, animandosi infine nelle dinamiche di attrici e figuranti sapientemente guidate da Sandro Maria Campagna. Attore diplomato presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, Sandro è anche Maestro d’Armi e membro della Compagnia Sud Costa Occidentale. Dal 2006 collabora con Emma Dante in qualità di attore e coreografo, oltre a fare da docente di Training Fisico per la “Scuola dei mestieri dello Spettacolo” del Teatro Biondo Stabile di Palermo e per l’Accademia romana che lo ha formato. In occasione del debutto pavese dell’opera gluckiana, e reduce dal lavoro per La Bohème in apertura della stagione del Teatro San Carlo di Napoli, Sandro ha condiviso con Birdmen Magazine una parte fondamentale del dietro le quinte di un’Opera, e cioè il lavoro con i corpi.

Cominciamo con la domanda di rito da qualche mese a questa parte. Da artista, come hai vissuto la pandemia e soprattutto il rientro? Come stai, Sandro?
E’ stata un’interruzione lunga, un salto senza paracadute. Come categoria, forse più di altre, non siamo attrezzati per affrontare emergenze del genere e tutte le difficoltà del nostro settore sono emerse con evidenza schiacciante. Ritornare è come riemergere da una lunga apnea. Stavamo annegando, speriamo sia finita.
Vi sentite sicuri a tornare a lavoro o c’è ancora una specie di sospensione dettata dalla paura? Il pubblico ha voglia di tornare con voi a teatro?
Nei teatri c’è un’attenzione meticolosa per garantire agli addetti di lavorare con serenità e anche agli spettatori di sentirsi sicuri. Mostriamo il green pass, facciamo i tamponi, tutte misure che si aggiungono al fatto non trascurabile di avere ancora una mascherina in faccia per gran parte del tempo, ma sappiamo che è necessario per proseguire la nostra attività.
Il pubblico ha mostrato tanta voglia di tornare, di trovare il proprio posto a sedere, il direttore che voleva seguire, la compagnia amata. C’è un desiderio, una fedeltà che si era persa un po’ durante la pandemia: la categoria pubblico è scomparsa per un po’ perché l’appartenenza professionale è subentrata per reclamare tutele e diritti. Non abbiamo avuto compagni, in questo senso, nella nostra protesta.
Sembra che il “ritratto dell’artista come giovane uomo” ce lo faccia immaginare, più che nella gabbia dorata, pienamente immerso nella contingenza storica.
Abbiamo riflettuto come singoli e come lavoratori sull’inversione delle priorità in una situazione di crisi e di emergenza. Abbiamo dovuto rispondere all’urgenza della quotidianità, e ripensare il nostro lavoro alla luce dei bisogni della società. Riconcepire l’artista nella comunità significa, però, anche tutelarlo con coerenza e sistematicità.
Nella speranza che strutturalmente qualcosa cambi, per il momento almeno le stagioni hanno ripreso a partire. Tu torni a Pavia con l’Iphygenie en Tauride, per la regia di Emma Dante. Qual è il tuo ruolo?
Io sono un coreografo ma non vengo dal mondo della danza tout court.
Spiegaci: un ballerino che non balla?
Diciamo che ci proviamo! (sorride) Piuttosto, il mio compito è tradurre il linguaggio coreografico nei miei codici, che appartengono al teatro. La mia è una formazione d’attore, sono maestro d’armi, conosco il movimento di scena, il combattimento di scena. La fonte è, per entrambe le discipline, il corpo, e questo rende labili i confini.
Anche nel dialogo con Emma, non definiamo i momenti della recitazione e del balletto. Noi diciamo che “danziamo quello che facciamo”: non dividiamo l’azione coreografica e la recitazione, non si può pensare per compartimenti stagni.
Nel decennio della “body positivity”, cosa diresti a chi vuole lavorare con te e teme di non rispettare un certo “canone” fisico, per intenderci, quello dei filtri e delle manipolazioni delle immagini social?
Non cerchiamo alcuna simmetria, o bellezza nel senso dell’estetica classica. Vogliamo i corpi sgraziati, con le imperfezioni, i vizi, i rumori: quello che raccontiamo è la vita, e deve essere reale. Ci serve però l’entusiasmo di mettersi in gioco, la disponibilità all’esperienza del percorso comune, che a volte è folle.
«Molto interessante anche la resa delle Furie che tormentano Oreste, rese tramite donne dalle braccia lunghissime che gli girano intorno e che lo avvinghiano. Emma Dante (insieme a Sandro Campagna che firma le coreografie) sfrutta il potere e l’impatto della fisicità per dare vita alla vicenda e ci riesce appieno, riuscendo così anche a superare i momenti più statici.»
(Theblogartpost)
A proposito di realtà, questa rubrica è dedicata al “dietro le quinte” dell’Opera. Cos’è che c’è ma si intravede soltanto nel prodotto finito?
Un grande lavoro di squadra attorno al regista, che ci racconta la temperatura, il colore dell’opera. Poi siamo noi, io, gli attori e le attrici, a proporre una restituzione di quell’idea interpretativa. Prima della pandemia, eravamo abituati a lavorare sui laboratori pre-opera: un periodo di tempo più o meno lungo (ndr, tempo non remunerato, perché la creazione artistica per sua vocazione esige gestazioni incompatibili con la frenesia capitalistica), in cui facciamo ricerca prima di incontrare il resto dell’organico dell’Opera. Con Emma prepariamo la tavolozza dei colori durante i mesi e con i corpi dipingiamo il quadro.
Hai parlato del resto dell’organico, e cioè l’impianto monumentale di cantanti, coro, musicisti. Come relazioni la tua arte performativa alle esigenze proprie dell’opera lirica?
La musica regna per emotività ed eloquenza, e poi interviene il libretto. Noi componiamo seguendo questa gerarchia e in armonia con la lirica. Lo abbiamo fatto anche qui al Fraschini: la musica ci ha restituito ad esempio un senso di attesa, di un’Ifigenia afflitta ma anche speranzosa che i suoi mali si risolveranno. Il senso della tempesta iniziale è questo: il tormento di chi vive nell’attesa che il mare si plachi.
I sentimenti nel melodramma hanno chiazze molto vivide: c’è il rischio del didascalismo o la tentazione di mimare l’emozione?
Non vogliamo spiegare con il corpo: quando agiamo la musica non lo facciamo secondo termini razionali, piuttosto cerchiamo di tenere un linguaggio al tempo stesso chiaro e lirico. In questo ci aiuta la regia di Emma, che è un intervento sull’opera che non lascia mai le cose come stanno. Ci sono momenti che non sono descritti dal libretto, forse addirittura neanche facilmente decifrabili nella musica: sono intuizioni, non-detti, che noi mettiamo in scena.
Dove ti troviamo nei prossimi mesi?
Come attore al momento sono in tournée con Pupo di zucchero (ndr, ultima produzione di Sud Costa Occidentale, per la regia di Emma Dante, liberamente ispirata a un racconto di Giambattista Basile). Da coreografo sarò impegnato con l’apertura della stagione 2022 del Teatro Massimo di Palermo con I vespri siciliani di Giuseppe Verdi
« C’è il teatro vero, quello fatto di corpi, di movimento, di effetti nati da poche regole sapienti. Corpi che agitano un drappo rosso e ricreano una tempesta di mare, l’incedere rituale delle sacerdotesse, una dea statua […] Fondamentali per il felicissimo esito drammaturgico le otto attrici (insieme alle otto figuranti) e le coreografie di Sandro Campagna, che ha fatto un lavoro approfondito non solo sul movimento e la danza ma anche sull’uso delle armi.» (connessiallopera)

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[…] Si potrebbe dire di Roberto Catalano che è un figlio d’arte, nel senso che quest’incontro è avvenuto in un’età talmente tenera da permettere all’arte di formarlo e legarlo a sé per sempre. Giovanissimo palermitano, ha mosso i primi passi come danzatore per il Teatro Massimo, e lì la magia è accaduta. Roberto è, come molti lavoratori dello spettacolo, uno che ha trascorso moltissimo tempo a osservare, dietro le quinte, e ad assistere (nel duplice senso di rubare i segreti del mestiere e di supportare gli allestimenti). Finché non ha potuto avere uno spazio tutto suo, con il Pollicino di Hans Werner Henze nel 2012, e una serie di riconferme sul fatto che sì, era giunta ora di fare questo mestiere e di farlo in prima linea. Nel 2014 la vittoria del bando di regia indetto dalla Fondazione Orizzonti d’Arte di Chiusi, poi il sodalizio con il Teatro Sociale di Como (che, confessa, frequenta sempre come una seconda casa) dal 2016, e da allora la sua firma circola tra le fondazioni lirico-sinfoniche, da Parma a Tenerife. Al Teatro Fraschini ha portato Il Trovatore di Giuseppe Verdi, di cui mi ha raccontato in modo generoso e appassionato per il secondo appuntamento della rubrica “Behind the Scenes of the Opera“. […]