
“Vetri rotti”: resoconto della paura
È forse opportuno parlare di Vetri rotti partendo da ciò che non è: non è la narrazione della Kristallnacht, il pogrom nazista che distrusse sinagoghe e vetrate di negozi nei quartieri ebraici; non è l’apologia della resistenza del popolo ebreo né l’ennesimo strumento di difesa da negazionismi ridicoli. Vetri rotti è piuttosto uno sfogo sincero e vagamente autobiografico di Arthur Miller, scrittore che di responsabilità individuale, conflitto familiare e perbenismo americano aveva già riempito la più nota Morte di un commesso viaggiatore; il testo di quarant’anni dopo si distingue per una declinazione psicanalitica inedita e una visione jungiana che supera le sponde della coscienza del singolo per gettarsi nell’oceano della psiche collettiva.
Protagonista dello spettacolo, in scena al Teatro Fraschini dal 2 al 4 febbraio, è Silvia, un’ebrea che perde improvvisamente l’uso delle gambe; il buono stato delle condizioni cliniche, però, induce il dottor Hyman ad avanzare l’ipotesi più temuta: la donna è vittima di paralisi isterica. La diagnosi, quasi sussurrata, si insinua nell’indifferenza generale e nel terrore, tutto maschile, che l’usuale paradigma di razionalità si incrini al cospetto del fantasma della “pazzia”. Miller sceglie il 1938: sono passati circa quattro decenni da quando Freud si è avvicinato alla figura dell’isterica cercando l’origine psicologica del malessere, non pago di quell’approccio biologico-medico che era incapace di vedere nell’isteria la manifestazione di segreti desideri rimossi; c’è tuttavia una reticenza, un’aridità generale che non consente né alle altre donne, né a Philip, marito di Silvia, di comprendere il disagio della donna, accusata ripetutamente di non possedere la volontà necessaria alla guarigione, appesantita dal fardello della colpa.
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L’articolo è stato publicato il 6 febbraio 2018 sul sito http://inchiostro.unipv.it/.
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