
Divorzio all’italiana – 60 anni di un’Italia che non sempre cambia
1970, entra in vigore la legge sul divorzio. 1981, viene abrogata la legge sul delitto d’onore – solo dopo che molti passi sono stati fatti nel campo dei diritti di famiglia. 20 dicembre 1961, esce nelle sale cinematografiche italiane Divorzio all’italiana, il film di Pietro Germi che, anche grazie al grande successo riscosso, rivoluziona definitivamente il sistema dei generi, conferendo una nuova venatura – forse la più importante dal punto di vista sociale – alla commedia. Nasce così, dalla giocosa parafrasi di un titolo, la commedia all’italiana che ironizza e fa satira su tutti quegli argomenti e quei drammi che segnano e, come avrebbe sostenuto Leonardo Sciascia, delineano il divario di un’Italia ancora in divenire.
Un’introduzione alquanto didascalica, ma perfettamente in linea con quel didascalismo necessario a cui Germi spesso ricorre nella sua intera filmografia per rendere chiari i suoi intenti e il fine delle sue opere che, sempre, possiedono un forte coté engagé. Tornando alle date, siamo nel 1960 ad Agramonte, in Sicilia – in quella regione cara al regista e alla sua produzione sin da In nome della legge (1949) e Il cammino della speranza (1950) –, il barone Ferdinando Cefalù, detto Fefè, (Marcello Mastroianni), dopo dodici anni di matrimonio con Rosalia (Daniela Rocca), asfissiante e sempre alla ricerca di conferme d’amore, vorrebbe lasciarla per coronare il suo sogno d’amore con la cugina sedicenne Angela (Stefania Sandrelli). Solleticato dai fatti di cronaca e dal processo alla concittadina Mariannina Terranova che aveva salvato il suo onore uccidendo il marito fedifrago, mette in atto un piano per poter a sua volta usufruire del delitto d’onore e sbarazzarsi della moglie.

I canoni della commedia: gli imprevisti, le gag, la presenza di intrusi e di complicazioni si amalgamano alla perfezione con il dramma di fondo che, senza girarci troppo attorno, vincola la libertà dell’uomo e quindi di buona parte dei protagonisti. Alle leggi nazionali si uniscono quelle di vita del popolo siciliano che sullo sfondo scalpita e prende posizione, soprattutto nel momento in cui Rosaria e il suo amante – il pittore Carmelo Patanè, corteggiatore della donna, riportato volontariamente da Ferdinando tra le mura domestiche – fuggono di notte, compromettendo il piano finemente architettato dal marito. Il buon Ferdinando viene sbeffeggiato, deriso, additato come “cornuto” e di conseguenza legittimato alla vendetta. Il delitto d’onore viene dunque inquadrato come arma a doppio taglio, tanto di rivalsa quanto di autocondanna. Il barone Cefalù, che studia scrupolosamente i pro e i contro delle posizioni che sta per prendere, si accinge a scontare la sua pena – che sarà di soli tre anni, ovvero il minimo sindacale – senza troppa amarezza. Sottile, davvero sottile è il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e distorto sembra essere anche il sentire dei personaggi che, per soddisfare i loro desideri, devono giungere, per vie traverse a compromessi che con la modernità e il progresso non hanno nulla a che vedere. Eppure, il delitto d’onore, soprattutto se commesso da una donna – come Mariannina Terranova – passa per atto eroico, per ribellione, per tentativo “prefemminista” di non sottostare alle angherie e ai vizi a cui gli uomini hanno sempre obbligato le donne a sottostare.

Germi, che in questa fase della sua carriera, crede ancora nel possibile miglioramento della società, gioca con ironia, attraverso una vena comica raramente sperimentata in precedenza, sulle altre “abitudini” siciliane: risultano perciò comici i siparietti in cui Ferdinando scopre la sorella Agnese intenta ad amoreggiare con il futuro marito Rosario (un giovane Lando Buzzanca). Vengono ugualmente sfruttati a favore della satira anche le condizioni atmosferiche del territorio, le abitudini, le tradizioni e l’appartenenza sociale. Mentre la voce narrante, che è quella del protagonista di ritorno dal suo periodo di reclusione, illustra allo spettatore quello che sarà il teatro della tragicommedia, si sofferma prontamente sulla differenza di ideali politici degli abitanti di Agramonte: i borghesi e i nobili decaduti, con il tarlo per il gentil sesso, sostenitori della Democrazia Cristiana e i proletari, scalmanati e alla ricerca di un progresso che lentamente si sta affermando, schierati con il Partito Comunista. Ferdinando è super partes, per lui non esiste nient’altro che Angela, ritratta al contrario come una madonna dissacrante, dal corpo perfetto, brutalmente aggredito dall’ira di un padre che la vuole chiusa in convento. Mastroianni, che nel giro di un anno passa dall’essere oggetto del disonore al disonorato – nel ’60 è uscito Il Bell’Antonio di Bolognini –, è ormai divo assoluto, burlescamente protagonista intertestuale del film di Germi, dove si assiste anche ad una proiezione de La Dolce Vita, a lui si deve buona parte del successo immediato del film. Tutto è concesso a Mastroianni, e una critica che stempera il brutale dramma di un’attualità feroce, vista attraverso i suoi occhi di seduttore, ma anche di uomo qualsiasi, arriva molto più diretta al pubblico italiano che, più o meno consapevolmente, si trova a dover riflettere sul suo presente nel momento in cui si vuole concedere uno svago – andando al cinema a vedere una commedia. Il finale stesso di Divorzio all’italiana che ci inganna fino a trenta secondi dai titoli di coda predisponendoci al lieto fine – il matrimonio di Fefè e Angela – viene spazzato via da un movimento di macchina, imperioso e beffardo, che ci rivela la ciclicità e l’irrisolutezza della vicenda. Angela, in costume, distesa su una barca, bacia il marito soddisfatto della sua nuova vita di quarantenne, e nel mentre fa piedino al giovane marinaio che si trova con loro.

Oggi, sessant’anni dopo, tornare ad approcciarsi alla visione di questo significa fare i conti con la storia del nostro Paese, ma ancora, proprio come capitava allo spettatore del ’61, anche con il nostro presente. C’è una buona dose di amarezza nel dover constatare che le leggi sono cambiate, le parole che usiamo sono evolute insieme alle dinamiche di approccio alle relazioni e ai rapporti, ma che, al contrario, l’indole all’illecito, al barbarico è sempre in agguato dietro l’angolo. Se il gesto estremo di Fefè poteva essere parzialmente comprensibile all’epoca, oggi dovrebbe, ma non lo è, essere qualcosa di storicizzato e obsoleto. Germi ci dimostra, oggi più che mai che il cinema rispecchia la realtà, la domanda è: quanto può mutarla?
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