
L’eterno fiorire di Elena di Troia – L’Elena (di Ghiannis Ritsos e) di Elisabetta Pozzi
Elena, cosa ti resta? La tua bellezza è sfiorita, la guerra, quella che il tuo perturbante fascino ha causato, quella cantata da Omero, è un lontano ricordo, Menelao è morto e tu sei qui, prigioniera della tua casa, delle tue ancelle impertinenti, viziate, irrispettose di colei che tu eri. Elena, cosa ti resta?
Nella traduzione di Nicola Crocetti, Elisabetta Pozzi (direttrice fresca di nomina della Scuola di Recitazione del Teatro Nazionale di Genova) porta in scena al Teatro Fraschini di Pavia, il 18 e il 19 maggio 2021, il poemetto Elena del poeta greco Ghiannis Ritsos, per la regia di Andrea Chiodi e con le musiche curate da Daniele D’Angelo.
Il palco sembra ospitare quello che ha tutta l’aria di essere un nightclub, un luogo oscuro, dimenticato, dove si addensano, si aggrumano le ombre del passato con cui Elena deve fare i conti, dialogando con un misterioso tu, un soldato che, nell’interpretazione dell’attrice, parrebbe configurarsi con il pubblico, chiamato a vedere il moto vorticoso dei ricordi della regina di Sparta.
L’ambientazione conferisce al personaggio quel fascino che, a tratti, sembra avvicinarla alla Norma Desmond di Viale del tramonto e, come nella pellicola l’attrice Gloria Swanson, così qui sul palco Elena è circondata da un lusso che si tramuta in vizio. I gioielli che indossa e che nomina sono il sintomo dell’effimero, di quella bellezza volata via, sostituita da una sigaretta in una mano ed un bicchiere di whisky (?) nell’altra.
La bellezza è scivolata via dal suo corpo. Adesso ad Elena resta indosso il fascino dell’esperienza, un’esperienza che si compone di una sostanza che non è quella del dato concreto, storico, evenemenziale. Non potrebbe essere questa la materia che nutre il suo percorso a ritroso nel quale i personaggi, i luoghi e i fatti diventano solo nomi («Argo, Atene, Sparta […] ombre di nomi; li pronuncio; suonano come sprofondati nell’incompiuto»).
Il mondo che Elena rievoca ha perso il suo eroismo. Lo scontro degli eroi si riduce ad una farsa, una pantomima, ed è così che, rievocando le gesta dei “nobili” eroi, Elena prende gli sgabelli, li sposta, li anima per dare vita con essi all’immagine della battaglia che, dal campo eroico, trasmigra qui, in mezzo alla polvere del tempo, in una casa che ospita le anime dei morti.

La vita di Elena si risolve in una serie di suoni inanellati, dove nessun «senso, dunque, [hanno] le cose e gli eventi» ed i nomi piú familiari vengono confusi tra loro, elencati in uno schema additivo che riduce i grandi del passato ad un puro elenco di sillabe… Paride, Menelao, Achille, Proteo, Teseo, Andromaca, Cassandra, Agamennone. Il dramma esteriore si (ri)traduce, si (ri)scrive in un forma interiore. «Le Simplegadi si sono trasferite altrove, in un luogo piú interno, le senti immobili, ammorbidite, piú tremende di prima, non schiacciano, [ma] annegano in un liquido denso e nero, non c’è scampo per nessuno».
Elena ci disarma con la lucidità del suo dialogo. Tra il fumo, prodotto dalle sue sigarette e dai macchinari, che invade il palco, tra i teli scuri che pendono dal soffitto come nere ragnatele, ella si accorge che in sé la storia non ha nessun senso, nessuno scopo; non rimangono gli eventi, i grandi nomi di cui lei perde coscienza e che si riducono ad un’eco. È altro che semmai rimane. Rimane la sua resistenza per cui «la casa resiste con tutti i suoi angoli e assieme ad essa anch’io […] e questa mia resistenza, inconcepibile, involontaria, estranea, è l’unica cosa che ho».
Elisabetta Pozzi, avvezza ai personaggi del mito, ha fatto recentemente parlare Cassandra, Medea e altri all’interno di Resistenze Teatrali, una rassegna virtuale promossa dal Centro Teatrale Bresciano (qui). Adesso, a parlare c’è Elena con il suo agire in maniera così disincantata, per cui gesticola in modo affettato, si sfiora il corpo in cerca (anche) della perduta bellezza. Ricorda quando camminava sulle mura, stagliandosi «nel cielo porpora e oro della sera», tenendo un fiore bianco tra i capelli, un fiore tra i seni, e un altro tra le labbra «per nascondere il sorriso della libertà». Il suo movimento, nel ricordo, si traduce in una sorta di rito primigenio con un non so ché di bacchico e ultimo. «Questo mi resta ancora […] questo rimarrà, mi dico, in qualche parte al mondo, una libertà momentanea, immaginaria, naturalmente, anch’essa, un gioco del destino e della nostra ignoranza».

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[…] non la uccidono, la annullano, spegnendola lentamente. Ma non demorde. Resiste come Elena di Troia nel monologo di Elisabetta Pozzi, andato in scena al Teatro Fraschini di Pavia, e regala al suo pubblico il suo sguardo […]