
L’Aida di Zeffirelli è «una cosa piccola ma (molto) buona»
Per la stagione 2019/2020, all’interno del circuito OperaLombardia è presente anche l’Aida verdiana, con una regia che Franco Zeffirelli predispose già nel lontano 2001 per uno dei teatri d’opera più piccoli d’Europa: il Teatro Verdi di Busseto.
Nelle intenzioni dichiarate del regista fiorentino, e fedelmente seguite da Stefano Trespidi che a lungo è stato suo collaboratore, questa Aida avrebbe potuto riscoprire uno spirito più intimo dietro l’epopea espressa dagli ottoni e dai tamburi che nel 1871 servirono ad inaugurare il Canale di Suez. È innegabile che nell’Aida trionfi il senso di un patriottismo difeso con orgoglio, e tuttavia è di Zeffirelli il tentativo di sfruttare l’occasione di uno spazio scenico più contenuto per rievocare le sottili pieghe dell’animo che rendono l’Aida la storia di uno struggente amore che non è soltanto amor di patria.
L’adattamento appare subito fedele al libretto di Ghislanzoni e il Preludio viene interamente affidato alla bacchetta del Maestro Francesco Cilluffo: la musica dell’orchestra “I pomeriggi musicali di Milano” è un gorgoglìo che cresce misurato, modulando gli acuti con grande precisione e spezzandoli col suono grave degli ottoni senza soluzione di continuità, mentre abilmente Cilluffo preserva il suono da variazioni troppo incisive.
All’apertura del sipario, l’allestimento della scena non delude le aspettative create dal preludio musicale: l’Egitto luminoso e sontuoso si impone con misura e cura per i dettagli. Le tonalità sfumano dall’oro caldo al bronzo tenue, passando per il verde brillante dell’ametista. Il realismo della rappresentazione non ha la velleità di riportare in scena il «gran macchinone», come direbbe Zeffirelli, in tutta la sua pomposità: osa nel cercare una verosimiglianza accurata, e vi riesce pienamente. Complici le imponenti statue di Sekmeth e Anubi e le scanalature che investite dalla luce amplificano gli spazi, tutta la scena sembra avvilupparsi per catturare lo sguardo, per poi continuare ad attorcigliarsi elevandosi sinuosa verso l’alto e aprendo l’immaginazione verso infinite e desertiche distese.
Questo è il quadro che accoglie l’entrata di Samuele Simoncini, un Radamès che diventa discreto nel pensare alla «celeste Aida» e raggiunge sfumature di suono tanto dolci quanto cupe. L’elemento virile è già presente nel primo “triangolo” amoroso composto dalla principessa egizia Amneris, una Cristina Melis spietata e dolce fino alla follia, che torna a più riprese con una voce priva di sporcature ma vibrante e aspra quando è accecata dalla gelosia; accanto a lei, Radamès amante rimane però meno convincente che nella sua veste di condottiero orgoglioso. Infine, a chiudere il trittico, Maria Teresa Leva è un’Aida immediatamente troppo accorata e dalla gestualità che distrae, e tuttavia convince quando si mostra dilaniata tra l’amor di patria e quello sventurato del cuore: la vocalità raggiunge a volte picchi violenti che stridono rispetto alla postura fisica del personaggio della schiava, mentre persuade quando, affranta, invoca i numi e con agli acuti struggenti chiede pietà per sé e per il popolo.
A fare da contraltare agli intrecci dei tre protagonisti, il coro diretto da Diego Maccagnola regge bene l’incalzare del rito di una guerra imminente, restituendo ampiamente l’energia di una corte egizia fulgente e compatta attorno al pericolo comune: la prossimità fisica del coro e dei solisti restituisce il senso della solida unione della corte-patria pronta a dare battaglia. Allo stesso modo, il coro è protagonista della supplica al «possente Fhta», uno dei momenti memorabili della rappresentazione, segnato da una compenetrazione perfetta tra solisti, coristi e golfo mistico, con la direzione di Cilluffo che ora riempie con puntualità i silenzi sospesi, ora sostiene il canto con convinzione concitata.
I costumi di Anna Anni sono meno vincolati al canone classicheggiante e combinano elementi vecchi e nuovi per inserirsi senza storture nel quadro generale aggiungendo un elemento di modernità: i drappi rendono fluidi e leggeri i movimenti di tutti i corpi che si stringono sul palco, e i dettagli dorati contribuiscono allo splendore generale del rito pervaso di sacralità e fervore. Le attrici agiscono come creature eteree immerse in un fluido dorato: precise nella gestualità, si muovono con un respiro comune fino a sembrare un’unica creatura a più teste; le coreografie di Luc Bouy sono eseguite con raffinata precisione e i mimi convincono in una danza che mescola gli elementi dell’Académie con le movenze esotiche del teatro Nō. Il risultato è una danza divertita e ipnotica, evocativa e mai didascalica.
Nonostante le ambizioni di Zeffirelli di trasformare l’epica storia di guerra in una narrazione più privata, la messa in scena divide in modo quasi manicheo, e però credibile, gli oppressori e gli oppressi, i regnanti e gli schiavi. La regia di Trespidi è attenta a rendere con chiarezza la dinamica di relazione tra i personaggi, con un’attenzione profonda alla complessità del sentimento del singolo in cui l’amor di patria diventa delitto, la resa muta in orgoglio e l’accettazione in rancore. Nelle scene corali, nonostante l’adattamento a un teatro di piccole dimensioni abbia richiesto il taglio di alcune parti come i ballabili, Zeffirelli non ha potuto ignorare il trionfo in musica di un Verdi incalzante e festoso, in cui il tripudio del furore della vittoria trova spazio per la pietà umana.
Negli ultimi due atti, nonostante la maestria dimostrata nella rappresentazione dei momenti collettivi, questa “Aidina” può dedicarsi a sfumare i contorni dei personaggi e a mescolare le tonalità della scena, quasi a voler mettere insieme le case dei vinti e dei vincitori. Il saluto di Aida alla patria nasconde un astio che raggiunge i timpani pur mantenendo la levità e la delicatezza di una voce potente ma controllata. Leon Kim è un Amonasro pieno di superba dignità, e con voce calda e avvolgente raccoglie il tormento dell’esilio e il desiderio di vendetta per i giorni vissuti in disgrazia. Rimane in prima linea la questione di patria rispetto alla relazione che Levi e Simoncini faticosamente riescono a stabilire, persuadendo molto di più l’uditorio quando si appellano al «ciel dei nostri amori».
Eppure, nonostante la grande Storia si imponga e prevarichi sulle vicende individuali, Zeffirelli restituisce dignità alla storia con la s minuscola, quella degli amori infranti, traditi, condannati.
E lo fa concludendo la rappresentazione con una pietà commovente per una terra che non riesce a ospitare un amore condannato dai sacerdoti che si adunano: sotto una «fatal pietra», come in una antica grotta fuori dal tempo e dal giogo delle nazioni, i due si giurano un amore immortale ed eterno con un duetto finalmente carico di un’emotività condivisa e sentita. Sopra, l’ira di Amneris si impone, con una Melis addolorata e impotente, che nella voce tremante sparge la propria colpa. Con questa Aida, che Carver chiamerebbe «una cosa piccola ma buona», Zeffirelli vince la sua scommessa con l’intimità, e ci insegna che c’è pace per l’uomo, forse, in un’altra terra.
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