
La finzione come abitudine – Scene da un matrimonio di Hagai Levi
Scene da un Matrimonio, prodotta da HBO e presentata all’ultima mostra del cinema di Venezia, è tratto dall’omonima miniserie di Ingmar Bergman, andata in onda su SVT2 nel 1973 e riadattata per il grande schermo l’anno successivo. Nonostante rimanga legata all’opera di Bergman, quella di Hagai Levi non è da intendersi come un’operazione di ricopiatura, ma piuttosto come un non remake, fedele al testo nella struttura ma divincolato nella diegesi, originale anche se non originario.
Il regista israeliano, già autore e produttore di BeTipul e successivamente di In Treatment, non smentisce la sua predilezione per un tipo di narrazione che fa della reciproca indagine psicologica tra personaggi il suo asse. Due individui nella stessa abitazione si trovano a interagire e quindi necessariamente a svelarsi, ferirsi e mettersi in dubbio. È un approccio narrativo affine alla poetica di Bergman, e questo consente a Levi di omaggiare il maestro svedese rimanendone indipendente nella costruzione dei personaggi.

Il matrimonio è ancora il protagonista del racconto: una donna, un uomo e il loro legame come riflesso narrativo di un ragionamento sulla futuribilità dei rapporti. Siamo nel 2019, Mira e Jonathan sono sposati e hanno una figlia, la fantasmatica Ava che, come tutto il resto, è spesso relegata al fuoricampo. Sono Chastain e Isaac infatti a tiranneggiare sullo schermo, indagati con ossessione analitica da un’istanza narrante che riesce ad essere trasparente e discreta anche se in prossimità.
Insieme a loro è la casa, ambientazione attiva e personaggio muto di tutto il racconto, a dominare il dato visivo della serie. L’abitazione di Mira e Jonathan è la resa architettonica del loro progetto di vita, comoda e soffocante, scandisce le azioni rituali del loro rapporto, ne determina i movimenti, i punti di vista, e invade la maggior parte del racconto. Arredamento e oggettistica sono status, adeguamento ad una norma, ad una necessità e insieme una consuetudine, come lavarsi i denti prima di dormire e cercare l’inalatore quando capita un attacco d’asma.

Allo stesso modo in cui l’istituzione matrimonio verrà messa in discussione dalle vicende del racconto, cambieranno le disposizioni di mobili, stanze e oggetti e Mira e Jonathan setacceranno questa planimetria emotiva in ogni suo angolo. La scenografia in interno è una risorsa interpretativa fondamentale per i due attori, entrambi simbiotici col rispettivo personaggio, vibranti nelle iterazioni. La scenografia domestica ha anche il compito fondamentale di farsi recinto concettuale e al contempo fisico del patimento di entrambi i protagonisti. In Scene da un matrimonio la casa è un nido ma anche un carcere, un cimitero di promesse tradite e insieme il teatro di una messa in scena alienante, una simulazione di felicità meccanica e ritualistica.
Non è quindi un caso se, all’inizio di ogni episodio, la macchina da presa attenta e girovaga di Hagai Levi inizia il suo percorso da fuori la casa, seguendo gli attori ancora non-personaggi mentre raggiungono il set, il luogo in cui si produce una finzione. L’istanza narrante inaugura ogni episodio da fuori la casa, ma soprattutto da fuori la cornice della diegesi, da fuori la finzione. Ecco che tramite questo umbratile espediente meta-narrativo, il matrimonio di Mira e Jonathan arriva a combaciare con la finzione stessa e quindi con la messa in scena di un matrimonio. Basta un ciak per cambiare pasta visiva all’immagine e per far sì che i green screen dietro le finestre diventino siepi notturne di vicinato, ma i cinque prologhi meta-cinematografici sono comunque dentro la serie, parte fondamentale del racconto.

Chi stiamo vedendo sulla scena? Un marito e una moglie, oppure due attori affiatati, bravissimi nell’interpretarli? La polpa tematica di Scene da un matrimonio sta tutta qui, ovvero nel modo che abbiamo di inscenare la nostra vita per farla coincidere con un’ideale – individuale o sociale che sia -. A tal proposito, è importante denotare come, analogamente al testo originario del 1973, il racconto inizi da un’intervista, compiuta da un individuo esterno al nucleo familiare, un’intruso che, proprio come la macchina da presa, indaga Mira e Jonathan da fuori.
Quella dei due protagonisti è dunque una relazione che si lascia spiare senza poter vedere a sua volta quello che c’è oltre la propria cellula abitativa, che è vista ma specularmente ceca verso l’esterno. Allo stesso modo, la casa è indagata dall’istanza narrante, ma non apre le sue finestre sulla realtà extra-domestica, è autoritaria e ineluttabile, uno spazio emotivo più che fisico. Come ogni casa violata nei suoi confini di privatezza ed esclusività, l’abitazione si svuota del valore di focolare, di intimità, di storia familiare, divenendo quel non luogo che Levi concretizza in fase di scrittura nell’ottima trovata dell’AirBnB sul finale: un edificio senza storia, usa e getta, pronto all’uso come all’essere dimenticato, puramente funzionale, non legato a valori di intimità.

Il racconto obbliga il fruitore ad assistere alle coazioni a ripetere di due prigionieri che, costretti nella cadenza temporale ellittica al medesimo spazio, riescono a uscire dagli schemi in cui erano costretti, proprio quando esplorano una nuova e rinnovata parte della costruzione, la soffitta, ovvero una stanza che Gaston Bachelard nella sua Poetica dello spazio, non stenterebbe a definire come panottico, garante di una visuale migliore sul mondo e sulla vita – come se la casa, svuotata degli oggetti e delle aspettative che hanno connotato il loro conflitto, aprisse il rapporto di Mira e Jonathan a nuove possibilità sconosciute.

In fondo, sembra che in Scene da un matrimonio, quella dell’istituzione famiglia sia un pretesto per parlare dell’affollamento materiale e visuale, inteso come diluente per l’esperienza, astrazione del sentimento e profondo scollamento da noi stessi, incapaci a riconoscerci nella visione prolungata del nostro volto nello specchio. Cosa è rimasto delle relazioni nel 2019 – e inquietantemente, dopo questi due lunghissimi anni -? E’ possibile amare sé stessi senza ferire le persone a cui vogliamo bene? La solidità di un legame, inteso come connessione tra due individui, è destinata, necessariamente alla fugacità? La promessa di una vita insieme è in partenza una bugia?
Questo non remake di Hagai Levi convince proprio per il suo rifiuto alla possibilità di dare una risposta chiara a queste domande. Farlo sarebbe come ridurre i personaggi a funzioni, vettori narrativi e non carne psicologica tridimensionale quali sono. Proprio la loro caratterizzazione giocata sul limite tra finzione e verità da backstage e la loro scrittura dipanata a retrocedere verso il passato, i traumi e le rispettive famiglie, è l’aspetto che rende l’opera di Levi un riuscito remake d’autore, pienamente installato nel periodo di riesumazione critica delle grandi opere che stiamo vivendo adesso.
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