
Hugo Cabret – Scorsese e quell’immagine impossibile
Presentato dieci anni fa esatti al New York Film Festival, Hugo Cabret è uno dei film più personali della produzione di Martin Scorsese. Secondo alcuni – per esempio Roger Erbert – il più personale, almeno fino a prima che il bellissimo requiem di The Irishman (2019) mettesse in crisi questa convinzione. Eppure a prima vista Hugo non ha l’aria di essere così intimo per Scorsese; siamo lontani dall’ambiente italoamericano, dalle storie di gang, di violenza e di spiritualità e dei ritratti più o meno autobiografici della sua New York. Si vola invece oltreoceano, in una stazione ferroviaria di Parigi e negli anni ‘30, con una sceneggiatura adattata da un romanzo di Brian Selznick – La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, 2007 -, una storia che parla il linguaggio dolce e nostalgico (quasi natalizio) delle fiabe per famiglie, per altro girata in 3D. Va però menzionato un particolare non irrilevante sul soggetto: questa fiaba parla delle origini del Cinema.
Va detto subito che Hugo ha il merito di nascondere bene le sue carte migliori, per poi scoprirle in crescendo a partire da metà dell’opera, come in un buon thriller. Hugo Cabret è infatti presentato come un semplice orfanello un po’ dickensiano, che vive mantenendosi con piccoli furti e dimostra un talento meraviglioso nella manutenzione degli orologi della stazione e, in generale, per tutti i meccanismi a ingranaggi. Il meccanismo che guida l’avventura del ragazzino, invece di trascinarlo verso la più classica delle storie di formazione, lo porta invece a salvare la memoria del Cinema e del suo “secondo padre”, George Méliès.

Méliès, infatti, oltre a essere il nodo narrativo del film – il focus si sposta infatti dall’avventura personale di Hugo alla riabilitazione del geniale cineasta –, è anche il padre spirituale dell’intero immaginario visivo dell’opera. Fin da subito, la Parigi a metà fra le due Guerre Mondiali è dipinta dal punto di vista dei suoi intrecci dentati, con un utilizzo a profusione di effetti visivi brillanti (che purtroppo perdono parte del fascino senza il 3D), un ritratto in stile Méliès per l’appunto, che fu allievo dell’illusionista Robert-Houdin e appassionato di meccanica e che inserì nel suo pionieristico e visionario cinema tutto il fascino dell’illusionismo e dell’automazione, fino a guadagnarsi la legittima nomea di padre degli effetti speciali. Il Méliès storico, che oggi conosciamo come una figura leggendaria e fondante per il mito della Settima Arte, subì un drammatico tracollo a causa della Grande Guerra e dovette chiudere la sua casa di produzione, la Star Film, per occuparsi insieme alla moglie di un piccolo chiosco nella stazione di Paris-Montparnasse. Ogni appassionato di Cinema, come lo è Scorsese, conosce questa grande ingiustizia, e anche il suo dolce lieto fine: Méliès fu infatti celebrato dai surrealisti e scampò all’oblio, ricevendo meritatamente la Legion d’onore e una sistemazione in una casa per artisti, dove morì nel 1938.

La storia personale di Hugo si intreccia quindi con la riabilitazione, a metà fra verità storica e finzione romanzata, di Papa George, ed è grazie al salvataggio del cinema del maestro che il film di Scorsese dà il suo meglio. Hugo Cabret assume il ruolo di macchina della memoria di Méliès, mostrando con una capacità – propria solo del Cinema – immagini dei set dell’autore, disegni e progetti per i suoi trucchi e un’ipotetica ricostruzione della storica retrospettiva personale che fu l’inizio del suo reintegro nella storia. Qui subentra anche il rapporto stretto di Martin Scorsese con il cinema documentario, genere che ha frequentato assiduamente lungo tutta la sua carriera e dal quale mutua il voyerismo impossibile per un’immagine che non esiste più: la ricostruzione di un set à la Méliès, con schiere di figuranti, costumi, effetti teatrali e ricche scenografie è una fantasia impossibile e un colpo al cuore per ogni appassionato.
L’immagine impossibile di un Cinema delle origini è, nei fatti, il vero dono che questo film offre allo spettatore. Grazie allo sguardo dello stesso Méliès vediamo anche una messa in scena del leggendario L’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat (1896), la prima proiezione dei Lumière in grado di spaventare il pubblico e battezzare il Cinema, nonché altre piccole citazioni disseminate un po’ ovunque, come le due bellissime scene – una di proiezione, l’altra di mimesi – di Preferisco l’ascensore! di Fred C. Newmeyer e Sam Taylor (1923), ripresa anche nella locandina di Hugo. Uno spettacolo reso ancora più impressionante dall’uso del 3D, voluto personalmente da Scorsese, esperimento che sicuramente Méliès avrebbe apprezzato e che conferisce nuova profondità al treno che diede inizio ai “sogni” impressi sulla pellicola.

A Hugo Cabret è perciò doveroso riconoscere il merito di aver mitizzato presso il pubblico di massa il nume tutelare di quel cinema più ingegnoso ed estroverso, giocoso e spettacolare. Ciò che è personalissimo in Hugo, infatti, non è un ritratto di Martin Scorsese allo specchio, ma la rappresentazione di un certo tipo di cinema che “c’era una volta” e che non esiste più, e che Martin stesso difende costantemente, come appassionato e con la sua attività di restauratore di pellicole del passato – impossibile non legare Hugo Cabret e all’attività di Scorsese con The Film Foundation e il World Cinema Project. Scorsese si è qui dedicato a un restauro diverso, ovvero il rinnovamento della sensazione di stupore di fronte al treno di La Ciotat, questa volta bucando per davvero la bidimensionalità della proiezione con l’utilizzo del 3D: il ripristino non tanto dell’immagine, ma dell’emozione genuina di fronte a essa. La restituzione della meraviglia al cinema delle origini, questo è stato il successo del progetto di Scorsese.
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