
Adolescentes – Un “presque rien” dalla bella forma
In una piccola cittadina dell’Aquitania, nel sud della Francia, vivono due ragazze come tante, Emma e Anaïs. Sébastien Lifshitz decide di filmarle lungo cinque anni per costruire un film su di loro, e così nasce Adolescentes, presentato prima a Locarno e poi alla Festa del Cinema di Roma, e ora disponibile su Mubi. È importante specificare il “come tante”, perché l’incursione verso il documentario, intrapresa dal regista francese soprattutto a partire da Les Invisibles (2012), si fa ora più insistita nell’inquadrare due persone normali, che vivono l’adolescenza senza clamori e a fatica parlano di cose interessanti. La loro vita è, del resto, davvero un presque rien, un quasi niente, per dirla con un altro titolo del regista. Con la showgirl trans franco-algerina di Bambi (2013) era diverso, ma pure con l’attivista LGBT Thérèse Clerc in Les Vies de Thérèse (2016): Lifshitz andava a privilegiare sguardi singolari, personali e distanti, persino impegnati e storicizzati, come nel caso di Thérèse, da raccontare nella forma del documentario biografico.
Ora un po’ tutti possono rivedersi in Emma e Anaïs. La prima vive in una bellissima villetta in campagna che dà su un paesaggio sempre assolato, con un padre quasi del tutto assente e una madre invece onnipresente, fastidiosa, iperprotettiva e pignola; la seconda è in una condizione economica precaria, con un fratellino di molto più piccolo a cui badare e una madre malata. Emma vorrebbe andare a Parigi a studiare per diventare attrice, e anche per liberarsi della madre. Anaïs se ne frega dei successi scolastici e vorrebbe solo lavorare in un centro per anziani, così da avere un guadagno immediato e aiutare la sua famiglia. Emma ha un atteggiamento che la conduce inconsapevolmente a isolarsi, è a disagio con la scoperta del sesso e la sua prima volta è persino straniante. Anaïs, al contrario, è una specie di petardo, esplode e procura divertimento agli altri, e soprattutto desidera amare e sentirsi amata, e cade in depressione quando viene lasciata.

Al di là della compensazione reciproca che le fa stare vicine da piccole fino alla maturità, le due ragazze assumono comportamenti molto distanti tra loro. E tuttavia l’accumulo di queste differenze restituisce un vasto e ottimo compendio degli atteggiamenti adolescenziali, del loro fare riottoso contro il mondo adulto, e del bisogno di autodeterminazione. Diventa quindi facile per lo spettatore ritrovarsi e scivolare nelle immagini di Lifshitz, selezionate con insindacabile precisione da un repertorio di oltre 500 ore di girato. Non serve adoperare il dramma di una casa che brucia, delle lacrime di Anaïs per la malattia della madre o per essere stata scaricata dal ragazzo che tanto amava; è sufficiente, al contrario, tenere il dolore fuoricampo e affidarsi alle sue parole confidate agli amici, come se noi ne vestissimo i panni e di quelle parole fossimo i custodi.
La partecipazione emotiva non viene tagliata via, ma collocata nella prospettiva della rievocazione di un passato (e di un presente, per chi lo guarda da adolescente) che attiene a tutti. Togliere un apparecchietto tenuto per anni procura dolore alle gengive, qualche volta si piange pure, e il dentista risucchia via le lacrime dalle guance con un aspiratore di saliva. È toccato a noi e tocca a Emma nella prima sequenza che Lifshitz decide di mostrarci, forse per imporre da subito un metodo che ravani, rovisti tra le immagini note del nostro repertorio memoriale, e stringa su quelle meno flagranti, meno battute, posate sul fondo della dimenticanza e per questo, quando rinvenute, percepite quasi come epifanie nuove.

È evidente la prossimità con Boyhood (2014), a partire dalla lunga costruzione pluriennale (qui di cinque anni, in Boyhood addirittura di dodici), e per quanto sia altrettanto immediata la differenza precipua tra finzione e cinema del reale, Adolescentes non manca dell’attrattiva dell’opera di Linklater. Un fattore che dipende soprattutto dall’imbellettamento dell’immagine. Lifshitz è spesso alla ricerca del primissimo piano magnetico, del dettaglio gestuale e della geometria, della disposizione studiata dei corpi, e quasi sempre si serve di un soft focus meticoloso. Verrebbe da aggiungere “come se il suo fosse un film di finzione”, ma cadremmo in errore.
Adolescentes è solo l’ultimo titolo a svestirsi del falso diktat secondo cui il cinema del reale debba essere il luogo di un’immagine brutta, anti-estetica. Sicuramente è questo il luogo privilegiato e più giustificato a trattenere la vita con le sue parti noiose (per invertire il senso di una famosa frase hitchcockiana), ma dimentichiamo spesso un principio – questo sì – quasi normativo: l’immagine cinematografica è un’immagine elaborata. Riprendere Emma e Anaïs alla Rosi o Minervini, o meglio ancora alla Kechiche (che con i due Mektoub, My Love sta in bilico tra i piani come questo film), non è un diluire e svilire la realtà nella finzione, ma un modellarne e scolpirne un’altra. L’immagine filmica, specie quella di Lifshitz, non rifà la realtà, anzi, ne fa un’altra.
Quindi è vero, come detto sopra, che Adolescentes è il film di tutti, ma è anche e soprattutto il film di Emma e Anaïs, protagoniste di una storia che collide con la nostra, quella dei filmati di repertorio che documentano la storia francese recente (l’attentato a Charlie Hebdo, al Bataclan e la sfida tra Macron e Le Pen), e la supera. Il presque rien al cinema ha una bella forma. Compreso del finale malinconico che annuncia la separazione inevitabile tra le due, tutto il film si auto-elegge a poesia per immagini perché Emma e Anaïs sono le protagoniste straordinarie della loro stessa storia, del loro stesso film e della realtà da esso custodita, e noi i fortunati viaggiatori tra le due realtà. Anche quando non vorrebbe esserlo, come in questo caso, il cinema resta bigger than life.
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