
L’effetto notte – Il chiasmo alla base del cinema
Effetto notte. La nuit américaine. Day for night. I tre titoli che il film di François Truffaut del 1973, vincitore del premio Oscar come Miglior film straniero, ha rispettivamente nel mercato italiano, francese e americano ci danno un’idea della diversità di interpretazioni semantiche che stanno alla base di quello che è una delle tecniche al tempo stesso più note e misteriose della tecnica cinematografica.
Per patriottismo di facciata o per più timida chiarezza, chiamiamolo semplicemente effetto notte. Un qualunque manuale di cinema, dopo aver eventualmente reso omaggio al capolavoro di Truffaut, si affretta a spiegare che l’effetto notte è la tecnica adoperata per simulare la luce notturna in scene, generalmente all’esterno, girate in realtà in pieno giorno.
Storia e tecnica dell’effetto notte
L’origine di questo effetto affonda le sue radici nei primi decenni della storia del cinema, ed è squisitamente tecnica. Di base, le pellicole cinematografiche, soprattutto le più antiche, avevano una sensibilità piuttosto ridotta e, superata una cert’ora, rischiavano di catturare ben poco di quello che accadeva di fronte all’obiettivo al calar del crepuscolo. Di qui subentrò la necessità di “simulare” la notte, attraverso filtri di colore generalmente giallo nel caso di pellicole in bianco e nero, e blu quando poi subentrò il colore.
Tradizionalmente, l’effetto notte è stata una tecnica adottata soprattutto nei western classici di fattura statunitense – da cui l’appellativo di “notte americana” che ha in Francia. Finché le inquadrature erano strette, e possibilmente con luci diegetiche in campo come quelle che possono essere fornite da un falò o da una qualche lampada, non era difficile giustificare un’illuminazione che, con qualche aiuto artificiale delle luci di scena, andasse a schiarire quantomeno i volti degli interpreti: ma inquadrature in campo medio e in campo largo, che dovevano rappresentare magari inseguimenti tra indiani e cowboys, richiedevano necessariamente di essere impressionate in pieno giorno, per poi essere re-ambientate nottetempo grazie a questi filtri o, in tempi più recenti, a speciali ritocchi in fase di color correction e post-produzione. Un’altra possibilità tecnica per simulare la notte sta peraltro nella sottoesposizione, nell’abbassare di uno o due stop il rapporto focale tra diaframma e obiettivo.

Esiste chiaramente la tecnica inversa, il night for day, girare di notte delle scene ambientate di giorno: e, inversamente, questa tecnica viene adottata soprattutto negli interni, per poter meglio controllare la luce nelle stanze – ma è assai più rara dell’effetto notte. Altrettanto chiaro è il fatto che, con lo sviluppo di pellicole sempre più sensibili nell’ultima parte del Novecento e poi con l’avvento travolgente del digitale nel corso degli anni Duemila, l’effetto notte è stato via via sempre meno adoperato – ma mai del tutto dimenticato.
Guida cinematografica all’effetto notte
Uno degli esempi più recenti dell’impiego dell’effetto notte sta in Zombi Child, attualmente l’ultimo film del regista francese Bertrand Bonello, presentato a Cannes nel 2019: ma, nel raccontare le storie parallele di uno zombie haitiano storicamente esistito e di sua nipote iscritta in un collegio di lusso nel cuore della Francia, la scelta artistica di girare day for night tutte le scene in cui Clairvius Narcisse si aggirava come un non-morto fra le piantagioni di zucchero dove aveva lavorato in vita era finalizzata specificatamente a esigenze narrative.

Con una certa fascinazione meta-, metacinematografica e al tempo stesso “metatecnica”, Bonello compiva un’operazione marcatamente retrospettiva, utilizzando una tecnica proveniente dal passato del cinema per raccontare una storia del passato, una storia che, per inciso, aveva a che fare direttamente con le conseguenze del colonialismo francese. L’effetto fotografico però risultava pesantemente innaturalistico, esageratamente crepuscolare, perfetto però per accompagnare le peregrinazioni del protagonista zombificato.
Torniamo indietro di qualche anno, a un film recente ma comunque ancora girato in un’ottima pellicola a colori: 28 settimane dopo (2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del più noto 28 giorni dopo di Danny Boyle datato 2002. Qui chiaramente il problema non riguardava la sensibilità della pellicola, che per quella data poteva tranquillamente riprendere campi anche molto larghi in esterno notte: la scelta di adoperare nuovamente l’effetto notte per gran parte delle sequenze notturne del film era il frutto del confluire di tre diverse esigenze, due delle quali estremamente pratiche.

Innanzitutto, in virtù dei contratti e delle norme che regolavano la presenza di attori bambini del film, sarebbe stato difficile se non impossibile avere il piccolo Mackintosh Muggleton sul set di notte. In seconda battuta, essendo il film ambientato in una Londra post-apocalittica circa sette mesi dopo lo scoppio di una pandemia zombie, le luci artificiali della città sarebbero dovute essere completamente spente – ma questo avrebbe richiesto un impiego enorme di effetti visivi in post-produzione, e probabilmente il risultato non sarebbe stato altrettanto buono. Inoltre, Fresnadillo in ogni caso pensava che girando day for night la fotografia del film sarebbe risultata più straniante e più sfumata rispetto che con una notte autentica: in questo modo, l’effetto notte ha assicurato una resa più cinematografica delle scene in questione, risparmiando contemporaneamente parecchi grattacapi alla produzione.
Si può andare ancora più indietro, chiaramente. Alcune delle scene-madri di The Searchers di John Ford, western a colori uscito in Italia con il titolo Sentieri Selvaggi, sono state anch’esse girate con l’effetto notte, e stavolta per mere ragioni di sensibilità delle pellicole Kodak degli anni cinquanta – ma questa era una prassi comune ai western dell’epoca, a colori o in bianco e nero che fossero.

Allo stesso tempo, anche il recentissimo Mank di David Fincher, film Netflix che va a pescare nella mitologia della Hollywood degli anni d’oro, fino a decostruire la figura di Orson Welles e a scimmiottare col digitale la pellicola in bianco e nero di quegli anni, ha la sua scena filologicamente realizzata in day for night: si tratta della scena di una passeggiata al chiaro di luna che vede coinvolti i personaggi di Gary Oldman e Amanda Seyfriend, come ha raccontato il direttore della fotografia Erik Messerschmidt ad IndieWire – e Mank è, per inciso, un film che ha vinto l’Oscar all’ultima edizione del premio.

In conclusione però, se l’effetto notte gode tuttora di una sua indiscutibile mitologia tecnica, non è soltanto grazie a un film di particolare successo di Truffaut che ne ha eternato la fama rendendolo noto anche al di fuori degli addetti ai lavori. Se l’effetto notte ha ancora la pregnanza tecnica e linguistica che riveste, è perché fa luce su quella che, andando verso Bazin cercando di non cadere nei suoi dogmatismi critici, verrebbe da definire la proprietà ontologica di base del cinema. Più che una singola proprietà si tratta in realtà di un chiasmo: la riproduzione perfetta e mimetica del reale, alla quale segue però, e fatalmente, una sua costante e cristallina falsificazione. Ciò che si vedeva al di là dell’obiettivo resta immutato: cambia tutto senza che apparentemente non cambi niente, gli oggetti e i corpi permangono in un contesto – in una fotografia – completamente stravolto, dal momento che il passaggio dal giorno alla notte non è una semplice questione di ambientazione e, in un certo senso antropologico, quest’alternanza di luci fornisce uno dei paradigmi di base di tutte le narrazioni.
“Hanno rubato la notte/Mi rimane solo il tuo cuore/Nero/Per iniziare un nuovo giorno”, diceva una poesia breve e intensissima di un’autrice irachena, Golala Nuri. Hanno rubato la notte? All’epoca della sua riproducibilità tecnica, all’epoca dei filtri e delle Stories, anche la notte si è digitalizzata.
Bibliografia
Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2003
André Bazin, Che cosa è il cinema? Il film come opera d’arte e come mito nella riflessione di un maestro della critica, Garzanti, Milano 1999, a cura di Adriano Aprà
Annette Insdorf, François Truffaut. Les films de sa vie, Découvertes Gallimard, Parigi 1989
Piercesare Stagni, Valentina Valente (a cura di), Suspiria e dintorni. Conversazione con Luciano Tovoli, Artdigiland, Dublino 2018
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