
La congiura del Fiesco a Genova, intervista al regista Carlo Sciaccaluga
1547, Genova. La città, formalmente repubblicana, è controllata dal nobile e ormai anziano condottiero Andrea Doria. Suo nipote Giannettino, spietato e in tutto dissimile dal fiero avolo, aspetta il momento per eliminare la Repubblica e farsi incontrastato signore di Genova. I repubblicani dal canto loro avvertono il clima di pericolo che aleggia sulla città e, guidati dal vecchio Verrina, ripongono le loro speranze nel giovane e audace Gianluigi Fieschi, detto Fiesco, appartenente a una delle più potenti famiglie nobili liguri antagoniste dei Doria.
Da qui l’idea della congiura che nell’arco di tre giorni prende forma sulla scena, in quei luoghi della città dove i fatti avvennero circa cinque secoli fa. A Schiller ciò che più interessa non è però il fatto storico in sé, il cui esito viene infatti alterato, ma l’intreccio inestricabile di pubblico e privato. Così, la lotta per il potere e per la libertà, le ambizioni personalistiche e il desiderio di giustizia si tingono costantemente di amore e desiderio, tra sospetto del tradimento e prove di fedeltà. In piena adesione ai canoni del movimento artistico dello Sturm und Drang, Schiller recupera e valorizza una storia di lacerante e sanguinosa lotta tra uomini e rappresentanti pubblici in cui la posta in gioco è il controllo su Genova.

La congiura del Fiesco a Genova, tragedia di Friedrich Schiller scritta nel 1783, è stata prodotta dal Teatro Nazionale di Genova con la regia di Carlo Sciaccaluga, che firma anche la traduzione dell’opera. Lo spettacolo, allestito nel centro storico della città, in piazza San Lorenzo, è andato in scena dal 19 al 4 luglio scorso e tornerà nella piazza la prossima estate. Accolto con entusiasmo e riscuotendo un grande successo di pubblico e istituzioni, lo spettacolo non ha avuto solo il merito di portare il teatro nella città, ma anche la peculiarità di avere la città come protagonista dell’azione teatrale. Dopo averlo visto abbiamo fatto due chiacchiere con il regista, Carlo Sciaccaluga.

Come mai proprio questo testo? La scelta è stata influenzata dalle contingenze degli ultimi tempi che, nella sfortuna, hanno permesso una realizzazione che in tempi normali sarebbe stata forse più difficile o volevi già farlo da tempo?
Volevo fare questo testo da un po’. Ho un forte legame con il teatro tedesco perché ho cominciato a lavorare proprio in Austria e in Germania. E con Schiller in particolare perché una delle prime cose che feci da attore in Italia fu I masnadieri, con Gabriele Lavia, dieci anni fa. Poi, questo testo in particolare perché non lo fa quasi nessuno – e capisco anche perché. È molto bello, ma anche molto denso, complicato, anche in Germania, nonostante lo studino molto, lo mettono poco in scena. Mi affascina proprio perché è ambiguo, senza buoni, senza cattivi, anche rispetto all’eroe stesso. Si fa un gran parlare di libertà, ma non come altrove in Schiller, dove il tema della libertà è puro. A differenza di altri testi dove chi parla di libertà è un buono puro, qui di buoni puri non ce n’è. Forse si può dirlo di Eleonora, la moglie di Fiesco, ma semplicemente perché non ha lo spazio per articolare un suo agire nel mondo, ma chi agisce nel mondo non sono né buoni né cattivi, non sai mai dalla parte di chi stare. Questo mi ha sempre affascinato. Anche perché, essendo tutta una parabola sul potere, e anche di più, una riflessione sul vivere insieme, sulla forma di governo, il fatto che sia ambiguo rende l’opera matura.

È bello e interessante vedere questo testo realizzato a Genova. Ed è altrettanto bello e interessante scoprire come un autore così rilevante del Settecento si sia interessato a una vicenda diversa dal solito intrigo da Borgia o De Medici, ma abbia recuperato fatti di una delle potenze europee cinquecentesche, Genova appunto, riconsegnandole anche dignità storica e l’effettiva portata e risonanza che la città ebbe nel panorama europeo. Colpisce anche lo studio accurato che Schiller fece nella ricostruzione dei fatti storici, ma soprattutto della città: la precisione della toponomastica, della forma di governo, le tendenze politiche che la attraversavano. Qual è stata la più grande difficoltà nell’allestire lo spettacolo in città invece che in teatro?
È stato molto difficile, ma se si pensa alle difficoltà in questo caso non si fa niente. Se si fosse preteso di avere in questo contesto la concentrazione che c’è in teatro, sarebbe stato impossibile perché è un caos costante. La cosa più difficile è stata mettere insieme molti soggetti che dovevano rendere possibile lo spettacolo: dai ristoratori ai due assessorati (commercio e cultura). È stata un’impresa un po’ mastodontica fermare una piazza, quella piazza, per un mese e c’è voluta tanta forza di volontà da parte di tutti. Il teatro ha lavorato molto, ha spinto tanto e la disponibilità politica c’è sempre stata.
È stato interessante anche vivere un ritorno a teatro in maniera quasi filologica, ricreando una condizione spettatoriale e rappresentativa vicina a quella di quando il teatro era uno dei tanti eventi che la città offriva mentre continuava la sua vita.
Era assolutamente il mio intento. Il teatro fa parte del discorso pubblico e deve stare in piazza. Nel momento in cui il pubblico non va più in teatro perché non lo percepisce più come luogo fondamentale per l’agorà, allora bisogna porsi il problema e fare dei tentativi per cercare di risolverlo. Bisogna cercare di spiegare cos’è il teatro, che non è ciò che credete che sia – anche a ragione, talvolta – cioè una roba pallosa per intellettuali e signore abbonate. Il teatro talvolta, a torto o a ragione, può anche essere un cazzotto nello stomaco. Guardatevelo, anche un quarto d’ora, e poi andate via. Quando la gente passa, quando capita che un ragazzino durante il duello dica “finiscilo” o quando qualcuno si ferma anche solo cinque minuti e dice “oh belin che bello” per me basta, abbiamo vinto, è quello che dovevamo fare.
Poi, questo spettacolo si chiama La congiura del Fiesco a Genova, ci tengo sempre moltissimo a sottolineare “a Genova” perché i protagonisti sono Fiesco e Genova, che è la vera protagonista. Dunque, farlo in mezzo alla città ha perfettamente senso, con tutti i disturbi che ci possono essere, che non sono mai veri disturbi, è la città che parla e vive. È stato chiaro fin da subito quando abbiamo fatto le prime prove in piazza: succede sempre qualcosa. Il teatro deve avere questo ruolo pubblico, deve buttarsi in mezzo alla comunità e far vedere che cosa è. E se mai, se qualcuna di queste persone torna a teatro, bene, tanto meglio: il punto non è vendere più abbonamenti, ma raccontare delle storie, raccontarsi delle storie. Vediamo cosa succede, se ha ancora un senso che il teatro abbia un ruolo nella articolazione di un pensiero critico pubblico.

Nella tua traduzione del testo compaiono alcune battute in genovese. Personalmente credo che l’utilizzo del dialetto sia stato molto azzeccato, soprattutto perché sempre in corrispondenza di momenti di particolare pathos. Come mai hai scelto di usare anche il dialetto?
Concretamente, ho pensato che i personaggi storici parlavano in genovese, non in italiano. Esiste anche una letteratura genovese amplissima, che nessuno frequenta, che non è purtroppo di un valore assoluto. Però è anche sempre un po’ arbitrario il destino delle lingue locali in Italia, che hanno grande nobiltà letteraria in Sicilia, a Napoli e in Veneto, perché in epoca moderna si è prodotto un teatro e una letteratura in lingua. A Genova questo non è successo, ma nonostante tutto il genovese è una lingua ancora abbastanza viva. Poi, più ampiamente, penso che ancora oggi in tante parti d’Italia il dialetto sia la lingua dell’anima, almeno per me personalmente lo è, anche se il genovese non lo so tanto bene e non lo uso abitualmente. Tuttavia, per tutti noi, quando affiora qualcosa di veramente sincero si tende ad andare alla radice della propria lingua, quindi al dialetto. E volevo usarlo in questo senso. Mi fa quindi piacere che tu noti che fosse usato in momenti drammatici perché volevo usarlo proprio nei momenti in cui la coscienza affiora dal profondo. Ho scelto volutamente di non mettere soprattitoli perché… si capisce quello che si capisce. Se uno non sa il genovese, sente un suono, ma la sostanza di quello che sta accadendo e di quello che viene detto c’è comunque.
La musica è un altro aspetto che mi ha molto colpito. Tanta musica: è stato un espediente per aiutare, o sopperire, quell’impossibilità di concentrazione totale che si ha in teatro? Non ci sono pause nello spettacolo, è tutto molto frenetico e veloce, il che, a mio avviso, rende bene anche il contesto politico e culturale che mette in scena: si tratta di una congiura, la storia si articola su tre giorni, tutto è velocissimo, in una corsa continua contro il tempo per arrivare prima degli altri… La musica era stata effettivamente pensata per scandire un ritmo così sostenuto?
Hai colto. In teatro non avrei mai messo così tanta musica, anche se mi piace usarne molta. Con Andrea Nicolini lavoriamo sempre molto bene, anche perché lui ha questa qualità unica di essere attore e compositore, quindi di riuscire a comporre musica per il teatro sapendo esattamente cosa serve. Non ragiona mai in astratto. In qualche modo, avevamo bisogno di crearci un po’ una bolla acustica per forza di cose. La musica ci protegge, altrimenti è un rischio veramente grande: basta sentire il grido di uno che passa e magari vuole anche disturbare e rovina lo spettacolo a tutti. Anche con i locali della piazza, man mano che i giorni passavano, siamo riusciti a creare una bella sinergia e loro sono stati sempre più contenti perché lo spettacolo è diventato un buon motivo per cui si riempivano i tavoli. Anche il fatto di creare la scena con il punto di vista degli spettatori laterale rispetto al palco è stato fatto per mettere i dehors alle spalle, altrimenti se avessimo scelto il punto di vista frontale sia in un senso sia in un altro avremmo avuto sempre i ristoranti nel campo visivo del pubblico.

Come dicevi, Fiesco e Genova dominano la scena. È un peccato, o almeno per me lo è stato, che invece la figura di Eleonora, che apre il dramma e si trova a essere vittima (sacrificale) del gioco di potere intessuto da Fiesco, sia poco approfondita. Man mano che lo spettacolo evolve, si capisce che l’amore per Eleonora ha un’importanza capitale nelle decisioni di Fiesco, ma quasi fino alla fine è molto sacrificata, non ha neanche il tempo di far vedere le sue luci e ombre.
Sì, anche se a guardar bene ha delle battute molto forti. Cerca di dissuadere Fiesco alla fine chiedendogli di tornare indietro e associando il coraggio al non andare per forza fino in fondo. Si dice sempre “vai avanti, abbi coraggio”, mentre lei dice “torna indietro, abbi coraggio. Se il mio amore non riuscirà a saziare la tua fame, come potrà farlo una corona”. Poi certo, nell’economia complessiva del testo non emerge forse così bene. È particolare poi perché in altri testi di Schiller l’elemento femminile è molto più presente quando non addirittura protagonista assoluto, come in Maria Stuarda e Giovanna D’Arco. Qui invece l’elemento femminile racconta molto la dimensione privata della società, per cui i nostri sentimenti privati vengono schiacciati, travolti e annientati in un attimo. Nella scena del quarto atto, dopo che lei ha provato a convincerlo e sono abbracciati, basta un colpo di cannone (il segnale atteso per dare inizio alla congiura) perché lui subito si stacchi da lei, sicuro di rivederla il giorno seguente. “Addio per sempre o a domani e Genova sarà ai tuoi piedi”. È Schiller che la rende così repentina e veloce. Il rovello di Fiesco circa l’amore per sua moglie e la sua brama di potere c’è nel testo. Ma Schiller si concentra molto di più sull’ambiguità del potere, sulla necessità di compromesso, sul continuo chiedersi cosa bisogna fare, in che modo prendere il potere e in che modo è giusto farlo. Questo per Schiller è veramente al centro di tutto. Il che poi è molto interessante perché siamo sei anni prima della Rivoluzione Francese. Prefigura tutto quello che poi succederà in Europa nei vent’anni successivi. Schiller è morto nel 1805 con Napoleone al potere, prima di vederne la caduta, ma qui c’è già tutto: la lotta contro la tirannide, un nuovo regime, il terrore, l’uomo forte da solo al comando dopo l’esagerazione del terrore, la restaurazione perché tornano quelli di prima. È esattamente il processo storico europeo dall’1789 al 1815.
Questo è uno spettacolo non pensato per essere portato in giro o avete in mente adattamenti per farlo altrove?
Oddio, non “pensato per”… Può essere portato in giro però bisogna capire bene dove. Lo riproporremo sempre a San Lorenzo la prossima estate e stiamo già pensando a come migliorarlo ulteriormente sulla base di questa prima esperienza. Al momento stiamo tentando di fare una trattativa con qualche teatro tedesco, vediamo se interessa. Nasce indubbiamente per essere fatto qui, volontà di tutti gli enti locali è anche di farlo tutte le estati, per farlo diventare un appuntamento fisso, una specie di tradizione genovese. Il che fa molto piacere perché è stato uno spettacolo fortemente voluto e supportato dal Teatro Nazionale. Il teatro ha davvero sempre spinto molto perché si facesse e ci tengo a ringraziare tutti di cuore, specialmente Davide Livermore, che è stato per me sempre un costante sostegno e confronto che mi ha aiutato moltissimo.
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