
Rosencrantz e Guildenstern sono immortali
Dal 5 al 17 novembre 2019, sul palco del Teatro Gustavo Modena, i neodiplomati del Master in recitazione della Scuola del Teatro Nazionale di Genova hanno portato in scena Rosencrantz e Guildenstern sono morti con la regia del loro, ormai ex, insegnante Marco Sciaccaluga. Il progetto era evidentemente legato al saggio finale nel percorso formativo dei giovani attori, La favola del principe Amleto, riduzione del capolavoro shakespeariano che aveva debuttato al Teatro Duse nel gennaio di quest’anno. I punti di contatto tra le due mise en espace, infatti, erano molteplici ed evidenti: stesso cast, stessa scenografia, il fortissimo segno stilistico delle maschere indossate dagli interpreti e la riproposizione integrale (o con un leggero cambio di angolazione per assecondare la differenza di punto di vista) di determinate scene contenute in entrambi i testi. Tuttavia, se La favola era semplicemente la dimostrazione di uno studio, per quanto intenso e approfondito, Rosencrantz e Guildenstern ambisce allo status di spettacolo vero e proprio. Dunque, si tratta della prima esperienza professionale per gran parte degli interpreti.
Una prova del fuoco non da poco per i ragazzi, i quali si sono dovuti confrontare con un testo sicuramente difficile da affrontare, per diverse ragioni. Innanzitutto nell’immaginario della maggioranza del pubblico era, probabilmente, ancora vivido il ricordo dell’ottima trasposizione cinematografica vincitrice del Leone d’oro come miglior film nel 1990, impreziosita dalle eccellenti interpretazioni dei due protagonisti, Gary Oldman e Tim Roth. Inoltre l’opera originale, scritta da Tom Stoppard nel 1964, fu il trampolino di lancio per il drammaturgo britannico verso il successo internazionale, e non è mai semplice rapportarsi con una pietra miliare del teatro del Novecento. Infine, il motivo più importante: questa tragicommedia esistenzialista è intellettuale ed intellettualistica, con molti punti di contatto con il teatro dell’assurdo (quasi inevitabile rivedere nei due personaggi principiali molti caratteri di Vladimir ed Estragon da Aspettando Godot di Beckett), e in casi simili non è affatto improbabile per un attore alle prime armi cadere nell’esasperazione della retorica come nel totale affidamento alla tecnica. Per parlare in gergo, l’inciampo nel gigioneggiare era dietro l’angolo. Fondamentali per scongiurare i suddetti rischi sono stati alcune decisioni stilistiche dettate dall’esperienza del regista Marco Sciaccaluga. A partire dall’utilizzo delle maschere.
Maschere profondamente evocative, realizzate da Ezio Toffolutti per una rappresentazione de Il cerchio di gesso del Caucaso di Brecht, diretta dal pupillo dell’autore tedesco, Benno Besson, amico e collaboratore di lunga data di Sciaccaluga. Questo espediente, oltre a salvaguardare i giovani artisti da insostenibili paragoni con le star hollywoodiane sopraccitate e consentire l’utilizzo dei doppi ruoli – necessari per concedere a quasi la totalità del cast la possibilità di impersonare uno fra Rosencrantz o Guildenstern e utilissimi per mantenere gli spettatori costantemente coinvolti dai frequenti cambi di ritmo dei protagonisti – ha soprattutto aiutato i ragazzi ad approcciare testo e personaggi partendo dal proprio corpo. Le maschere teatrali, infatti, siano neutre, larvali, della Commedia o caratterizzate, come in questo caso, hanno precisamente il compito di trasformare la psicofisica dell’attore in maniera organica ed immediata – Lecoq docet – senza che questi si perda in ulteriori voli pindarici sulla costruzione del personaggio. Una scuola differente da quella più nota, proveniente dalla tradizione stanislavskiana, ma che può risultare, come dimostra questa produzione, ugualmente efficace.
Lo spettacolo risulta, quindi, piacevole e appassionante, dal momento che le maschere prendono vita da subito e mantengono la loro verità per quasi l’intera durata della rappresentazione, restituendo a chi osserva quel senso di impotenza quotidiana e di smarrimento dell’uomo qualunque che costituiscono l’essenza dei personaggi marginali, almeno in apparenza, nell’Amleto, e ricollocati in posizione di spicco da Stoppard, forse proprio per quella natura così comune, che suscita spontaneamente empatia e comprensione. Sballottati da una parte all’altra dal corso degli eventi e da altre forze superiori (ora ordini reali, ora l’incostanza del loro vecchio amico impazzito), confusi dai ripetuti incontri con la compagnia di attori (saggiamente presentata da Sciaccaluga come coro, su modello del teatro Greco), loro specchio deformante e deformato, i due protagonisti, dai nomi tanto bizzarri da risultare impossibili da memorizzare con certezza, attraversano l’opera tentando di non commettere gesti inconsulti o controproducenti, di non offendere o infastidire, di scansare responsabilità o punizioni. Manifestano la volontà di nascondersi. La vita e le sue impronosticabili relazioni causa-effetto appaiono troppo grandi per loro due, che non chiedono altro di ritornare ad essere secondari in questa brutta vicenda danese. Ma stavolta sono sbattuti sul proscenio. Sono loro due che devono raccontare e raccontarsi. La platea, composta da gente che come loro spesso non sa, non può capire, non vorrebbe, si vede dunque riflessa con fedeltà e confusione, in un sottile gioco di specchi deformanti e deformati.
L’intuizione geniale di Stoppard sta tutta qui. Rosencrantz e Guildenstern finiranno male, è vero, ma né nel capolavoro di riferimento, né qui, noi assistiamo alla loro morte. In un certo senso, è come se fossero immortali. Rimangono imperituri nella memoria delle persone che hanno assistito alla loro storia, indipendentemente dal punto di vista da cui viene narrata, come simbolo dell’amicizia fra persone qualsiasi che, faticosamente, cercano di sostenersi a vicenda, per resistere all’inesorabile scorrere delle loro esistenze in minore. Per citare Wilde, dal De Profundis: «Di tutto ciò Rosencrantz e Guildenstern non capiscono niente. Essi sorridono, si piegano, fanno i graziosi e quel che l’uno dice l’altro lo ripete, sempre sul medesimo tono. […] Essi sono i più vicini al segreto di Amleto e non ne sanno nulla. E non gioverebbe a niente il rivelarlo loro. Essi sono la piccola coppa che contiene una determinata misura e basta. Verso la fine, com’è detto, essi hanno trovato o troveranno una morte improvvisa, caduti in un’insidia tesa per un altro. Ma una fine tragica di tal fatta, benché lo spirito d’Amleto la sfiori un poco con la sorpresa e la giusta aria della commedia, non si conviene realmente a dei personaggi come loro. Essi non muoiono mai».
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