
Pirandello e Lavia, «giganti» sul palco
Dal 9 al 12 gennaio 2020, il pubblico bolognese ha avuto la fortuna di assistere ad un incontro fra due giganti del teatro italiano dell’ultimo secolo. Sul palco dell’Arena del Sole, infatti, Gabriele Lavia mette in scena l’atto conclusivo della sua trilogia pirandelliana. Dopo aver firmato la regia ed interpretato i ruoli principali di Sei personaggi in cerca d’autore e L’uomo dal fiore in bocca…e non solo, l’artista milanese si cimenta con I giganti della montagna, l’ultima drammaturgia scritta da Luigi Pirandello, nonché testamento artistico e sintesi definitiva della poetica del Premio Nobel siciliano.
A confermare il fatto che si tratti di un progetto di primissimo piano, dal peso specifico culturale fuori dalla norma (almeno secondo gli attuali standard del teatro di prosa italiano), oltre alle carriere delle due personalità in questione, costellate di successi internazionali e di una gigantesca mole di premi e riconoscimenti ricevuti, e all’importanza letteraria del testo rappresentato, c’è la straordinaria ricchezza della produzione: dal momento in cui sia alza il sipario, saltano subito all’occhio le scenografie imponenti e magnifiche, che richiamano all’immaginario dello spettatore (per prassi e abitudine, non per necessità o giustizia) il ricco mondo operistico, più che lo spoglio teatro borghese.
Attira, inoltre, l’attenzione, già da una prima lettura del foglio di sala, l’inconsueto numero di attori che si avvicendano sul palco. Tra i protagonisti, i personaggi secondari e le figurazioni speciali, si arriva alla ragguardevole cifra di ventitré persone. Fino a qualche decennio fa, la normalità, oggi, una rarissima eccezione. Insomma, per risonanza mediatica, qualità e notorietà degli interpreti, fama di autore ed opera e quantità di enti coinvolti nella produzione, risulta immediatamente chiaro che chi siede in poltrona assisterà ad uno spettacolo di Serie A. Non c’è da stupirsi, dunque, se la magia non tarda ad arrivare.
Magici e fantastici sono, innanzitutto, il tema, la trama e lo stile del copione. Come si è detto, si tratta dell’ultima opera di Pirandello, quella in cui con maggior forza e potenza evocativa, l’autore siciliano contrappone il mondo reale a quello sovra-reale, l’inconsistenza e la pochezza delle forme costruite dall’uomo, alla grandiosità dell’immaginazione, dell’intangibile che è essenza della vita.
«Ogni forma è una morte» sentenzia ripetutamente Cotrone, mago e capocomico di Villa La Scalogna. Non era una posizione facile da sostenere allora, non lo è oggi: ecco perché non lo può essere nemmeno per gli Scalognati, i residenti della Villa, spazio di confine e di segregazione in cui si svolge l’intera storia. Vivere in totale comunione con questa scomoda e geniale intuizione – come gli Scalognati fanno, sotto la guida di Cotrone, ormai da un tempo indefinito all’inizio dell’opera – richiede testardaggine, follia e una buona dose di sacrifici.
Il prezzo più alto da pagare per poter risiedere fra sogni e fantasmi, incuranti delle insensate strutture sociali correnti, è la assoluta separazione dal mondo reale – il mondo dei giganti – quella genia di uomini che eccellono nella forza fisica, nel progresso della tecnica e nella totale incapacità di immaginare, lungimirante metafora di ciò in cui, nei decenni successivi alla morte di Pirandello, il modello socio-economico capitalista ci avrebbe trasformati. I giganti vivono sulla montagna vicina a Villa La Scalogna, tra infrastrutture e sistemi produttivi solidi ed efficienti, e un eventuale incontro con loro costituisce la più grande paura per gli Scalognati.
Arrivano alla Villa gli attori della Compagnia della Contessa, unico punto di contatto possibile fra le due realtà agli antipodi. Di pura immaginazione, o quasi, è composta la Favola del figlio cambiato, lo struggente dramma che ossessiona la prima attrice della compagnia; ma, d’altra parte, lo spettacolo, che può vivere solo all’interno delle mura di questo luogo sovrannaturale, porta con sé la necessità di essere rappresentato nel mondo concreto, reale, dei giganti. Gli attori, uomini stremati e ridotti alla miseria, trascinati dalla dolente pazzia della Contessa e dal pietoso amore di suo marito, il Conte, rimangono sul confine tra forma e sostanza, tra reale e sovra-reale. Ma, più precisamente, sono stranieri in entrambe le dimensioni. Lavorano e si adoperano per ottenere applausi, che però mancano da anni (il pubblico è troppo istupidito e la sua fantasia sterilizzata), e rimangono sì stupefatti, ma anche sconvolti e terrorizzati dagli eventi inspiegabili che avvengono nella Villa. Non sanno quale sia il loro posto fra le due alternative del possibile e dell’impossibile, probabilmente perché nessuna delle due lo è.
Il mago Cotrone, aiutato dagli altri Scalognati e dai suoi Fantocci, tenterà di persuadere la Contessa a fermarsi nella Villa, unico teatro consono alla Favola del figlio cambiato, attraverso incantesimi ed apparizioni. Ma Ilse non può rassegnarsi a isolare la sua arte e l’opera che le è sta dedicata dal poeta che era suo spasimante, di cui lei pure era innamorata, e che è morto suicida a causa del suo rifiuto. Non può accettare la segregazione, ha come unica maniacale missione la diffusione della Favola nel mondo che la rifiuta.
Alla fine, il capolavoro non finisce. I giganti si avvicinano, unica speranza economica della Compagnia, minaccia mortale per la magica integrità della Villa e dei suoi abitanti. Scalognati ed attori ascoltano il frastuono del loro spostarsi attoniti, impauriti. Arriveranno? Salveranno attori e Favola? Condanneranno per sempre Villa e Scalognati? Una sola voce spezza l’attesa carica di suspance, mentre il sipario si abbassa. Una voce femminile: «Io ho paura, ho paura».
Gigantesco il dramma, gigantesche, come già accennato, scenografie e luci, gigantesca la qualità attoriale che gli interpreti esibiscono sul palco dell’Arena del Sole. A partire da Gabriele Lavia, che nei panni di Cotrone, mette in scena una prestazione magistrale, conciliando una naturalezza disarmante, suo marchio di fabbrica, a un’impostazione tecnica vocale inappuntabile, d’altri tempi, e ad una fluidità di movimento davvero invidiabile. Qualche vizio di forma, caccola in gergo, di troppo e l’ovvio rischio di ripetersi simile a sé stesso in altri ruoli, non valgono a sminuire la sua interpretazione.
Cotrone è credibile da sipario a sipario, nessuno spettatore può aver perso una singola sillaba delle sue battute e, a 78 anni, grazie al mestiere, si muove sul palco con più disinvoltura di molti ventenni. Un maestro e un esempio necessario agli appassionati di teatro delle nuove generazioni. Molto solide e centrate anche le prestazioni di Clemente Parnarella, il Conte, Mauro Mandolini e Gianni De Lellis fra gli attori della Compagnia della Contessa, e di Matilde Piana fra gli Scalognati. Notevoli per precisione di movimenti e coordinazione i Fantocci. Formidabile e geniale l’interpretazione di Federica Di Martino, nel ruolo di Ilse, personaggio complesso e incredibilmente rischioso, come spesso lo sono i folli, attraversato dalla moglie di Lavia con grande verità e struggente passione, supportate da una tecnica, specie vocale, sconvolgente. Semplicemente, una dimostrazione di bravura da brividi.
In conclusione I giganti della montagna diretto e interpretato da Lavia offra al pubblico un vero e proprio regalo. Senza eccedere nelle provocazioni atte a sconvolgere o scandalizzare la sensibilità e l’intelligenza degli spettatori, con gusto e garbo, trasporta tutti in una dimensione immaginativa estranea alla realtà quotidiana (che, in fondo, dovrebbe essere lo scopo del teatro per eccellenza). Ma non si limita certo ad intrattenere, a cullare i paganti in dolci e leggere fantasie per tre ore, al contrario. Grazie all’ottima restituzione del lucidissimo impeto intellettuale di Pirandello, conduce chi guarda a porsi scomode domande sulla società in cui vive e sul proprio ruolo in essa. I rozzi giganti sono sempre più vicini al palco, eppure non vi salgono mai. Sono proprio lì dietro, ma non sono più in grado di credere fino in fondo, di mescolarsi alle magie che avvengono in scena. Proprio come noi spettatori. Curioso.
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[…] in particolare perché una delle prime cose che feci da attore in Italia fu I masnadieri, con Gabriele Lavia, dieci anni fa. Poi, questo testo in particolare perché non lo fa quasi nessuno – e capisco […]