
Tutti per uno, due per tutti. Belve al tavolo dell’umanità in disfacimento
La cena delle belve, vista al Teatro Nazionale di Genova, è la commedia teatrale più celebre dell’autore francese di origine armena Vahè Katchà, scritta nel 1960 e divenuta uno dei maggiori successi del teatro parigino grazie alla regia di Julian Sibre. È proprio con questa commedia che il regista si è imposto sulla scena teatrale francese e non solo, ottenendo nel 2011 anche tre premi Molière, il più importante riconoscimento del teatro francese.
La realizzazione italiana è il risultato della collaborazione registica tra lo stesso Sibre e Virginia Acqua e porta in scena la traduzione di Vincenzo Cerami, scrittore e candidato all’Oscar per la sceneggiatura de La vita è bella, nonché allievo e aiuto regista di Pier Paolo Pasolini. Cerami traspone sapientemente nella Roma del ’43 occupata dai nazisti l’intreccio tragicomico dell’opera originale, riuscendo nell’intento di avvicinare il pubblico italiano a una situazione esistenziale dal sapore archetipico, dalla trama culturale fortemente riconoscibile.
L’incipit della narrazione è una cena tra amici per festeggiare il compleanno della giovane moglie del padrone di casa, Sofia. Il desiderio dei convitati è quello di passare una serata spensierata che, almeno nelle intenzioni, sia una parentesi al senso di oppressione e alle negazioni della guerra. Tutto sembra procedere per il meglio, in un clima in cui la guerra è ridotta a un pretesto per battute sagaci e brillanti piuttosto che a una sottotraccia disturbante. Tutto troppo tranquillo per essere davvero tranquilli. È chiaro – ce lo preannuncia il titolo – che qualcosa di ferino deve succedere: il ritmo iniziale, non subito incalzante, permette però ai personaggi di prendersi il proprio tempo per presentarsi allo spettatore, andando a comporre una sorta di premessa all’illusione nell’illusione.
Quando il quadro sembra ormai composto, qualcosa si rompe. A distruggere ogni apparenza di momentanea serenità è l’improvvisa uccisione, davanti al palazzo in cui gli amici sono riuniti, di due ufficiali tedeschi e la conseguente rappresaglia che la Gestapo decide di fare, in assenza del colpevole, prelevando due ostaggi per ogni appartamento. Il comandante dell’operazione riconosce però nel padrone di casa il suo libraio di fiducia e, affascinato dal caso – unica fede che sembra davvero condividere – decide di riservargli una sadica cortesia. Non sarà infatti lui a scegliere i due ostaggi, ma gli stessi amici: a loro il compito di decidere chi sacrificare entro la fine della cena.
Julian Sibre, già nella sua versione francese, realizza lo spettacolo in collaborazione con il disegnatore Cyril Drouin, le cui immagini in bianco e nero sono caratterizzate da un tratto sobrio e duro che ricorda il Persépolis di Marjane Satrapi. Infatti, alla rappresentazione teatrale degli interpreti, si alternano e si uniscono molte altre forme mediali, a cominciare dal cinema d’animazione. Ciò che un tempo sulla scena forse poteva essere soltanto raccontato e mediato dalle azioni degli attori, è oggi possibile raccontarlo con l’aiuto di altri linguaggi: l’attentato ai due soldati tedeschi, evento scatenante del dramma, come altri frammenti della narrazione, vengono infatti resi e raccontati attraverso l’animazione. Dove, nello spazio e nel tempo, la possibilità comunicativa della scena teatrale sembra avere dei limiti, essa dimostra in realtà di sapersi espandere, in questo caso grazie all’espediente cinematografico che accorre in suo aiuto.
Ma il cinema non è l’unico medium chiamato a partecipare a una resa quanto più completa della narrazione. Sono infatti diversi i momenti in cui altri linguaggi multimediali vengono integrati nella performance: anche la radio è invitata a teatro, sia la voce storica di Radio Londra, sia la radio della canzone leggera degli anni ’40. Non manca poi la letteratura che, anzi, in questo spettacolo fa da padrona. Sono infatti moltissimi i riferimenti letterari: dalle citazioni dirette dei grandi classici – a cominciare da Sofocle per arrivare fino a Tertulliano –, ai molti richiami che compongono il fitto sottotesto filosofico che permea la sceneggiatura, elaborando una propria riflessione sulla vita e sulla morte.
L’immane belva della guerra entra con prepotenza sulla scena e rompe ogni equilibrio costruito fino a quel momento: così la fiera costringe tutti i commensali a trasformarsi a loro volta in predatori. Come in un secondo inizio, la violenza e l’assurdità dell’attentato fanno ripartire la bobina: ogni personaggio viene lentamente messo al muro, costretto a fare i conti con la propria meschinità e con il proprio viscerale egoismo, mostrandosi agli altri per ciò che realmente sceglie di essere. La cena inizia così a trasformarsi in qualcosa di continuamente inaspettato: da cena tra amici a rito sacrificale, da pausa nella Storia a corsa contro la Storia, da rifiuto collettivo del ricatto nazista a inconfessata accettazione individuale volta a tutelare la propria vita.
In questo malato gioco dell’impiccato, a cui, volenti o nolenti, tutti prendono parte, l’interpretazione della compagnia – che ben funziona nella continua dialettica tra singolo e coralità – dispiega approfonditamente il profilo psicologico di ciascun personaggio e riesce a mettere splendidamente in luce ogni sua sfaccettatura comportamentale ed emotiva. Come in una sommatoria, l’immagine che ognuno di essi contribuisce a costruire altro non è che la meravigliosa e sinistra complessità della natura umana. È difficile non riconoscersi in nessuno dei personaggi che uno a uno esplodono sulla scena: la tensione infatti sale per tutti finché ognuno non raggiunge il proprio punto di detonazione. Il ritmo procede e si impenna, lasciando lo spettatore con il fiato sospeso e portandolo quasi a uno stato di incredulità, come incapace di rispondere alla domanda: “Possibile che ce ne sia ancora?”
Lo spettatore riesce a sostenere la terribile spoliazione delle meschinità umane grazie all’alternarsi di tragedia e commedia: tanto è tragico ciò che l’uomo riesce a rilevare di essere, soprattutto a discapito dei rapporti umani più stretti che dovrebbero essere insacrificabili, tanto lo humor riesce a essere pungente ed efficace. Così, anche nelle rivelazioni più grette, nelle confessioni più scioccanti e nella dignità che cede il passo alle bassezze della disperazione, tutto, da pesantissimo, diventa per un momento leggero, proprio grazie all’ironia, ben cadenzata, che condisce lo spettacolo.

Spettacolo molto denso dove tanto, forse troppo, ci sarebbe da cogliere. Si ha talvolta la percezione di essere travolti da un’ondata di spunti e di riferimenti che può avere effetti disorientanti. La ricchezza del testo e della costruzione registica mostrano il loro limite nel momento in cui sembrano debordare dalla scena, rendendosi esse stesse inassimilabili nella loro totalità e potenziale profondità. Storia e letteratura sostengono un discorso filosofico che coinvolge tutti, i sette amici – i Sette di Tebe – e il comandante nazista, in un quadro complessivo in cui “bene” e “male” risultano solo etichette etiche riduttive e, in fin dei conti, inutili.
Di fronte alla messa in scena corale di una vita che si rivela così meschina, così gretta, così impura, Katchà sembrerebbe forse suggerire – nel contesto di una generale visione alquanto nichilista dell’esistenza umana – la scelta di una più degna morte. La morte come gesto privo di significato, ma quantomeno autentico, trasparente e, questo sì, definitivo.
«Non c’è niente di più sbrigativo che passare dalla vita alla morte» – viene detto a un certo punto –, nulla di più vero e di più falso al tempo stesso. Lo spettacolo ci porta a ragionare in una continua ridefinizione semantica che sembra coinvolgere ogni aspetto dell’esistenza, tenendoci col giudizio sospeso e spingendoci a conciliare senza fine gli opposti. Gli attori ci invitano abilmente a perderci con loro in un labirinto esaltante e insieme frustrante: pur di uscirne il gruppo è «pronto a provarle tutte», per dirla con le parole di Virgilio. O forse no, di Orazio.
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