
Abel Ferrara. Per una cinematografia deleuzianamente minore
Di Ludovico Cantisani
Nel cinema indipendente americano, una posizione di rilievo la riveste Abel Ferrara, classe 1951, nato nel Bronx da una famiglia italo-irlandese. Mossosi nella prima parte della sua carriera apparentemente sul solco di Scorsese, Ferrara non ha tardato a chiarire i suoi punti di originalità e personalità stilistica, diventando, più che un epigono, un vero e proprio controcanto all’epos-opus scorsesiano.

Che si tratti di un boss della droga che esce dal carcere con l’idea di conquistarsi tutto il mercato della città, come in King of New York; che si mostri l’arresto in suolo americano di un uomo d’affari francese à la Strauss-Kahn, come in Welcome to New York; che si metta sullo schermo invece una o più crisi e rigenerazioni spirituali, come in Mary o nel recente Siberia, il cinema di Ferrara è mosso e scosso da corrispondenze interne che lo rendono particolarmente fertile a una lettura generale: a ben vedere, soprattutto se si prende a riferimento il percorso parallelo di Scorsese, è interessante applicare al cinema di Ferrara quella nozione di “minore” che il filosofo francese Gilles Deleuze applicava ai libri di Kafka.

Prendiamo a riferimento quelle che sono forse le opere più note dei due registi, Taxi Driver di Scorsese e Il cattivo tenente di Ferrara, che risentono del medesimo immaginario visivo di violenza urbana. Se Taxi Driver dà una prospettiva su un’intera società, Il cattivo tenente si focalizza invece su un individuo, talmente distaccato dal mondo da non essere influenzato o condizionato da nessuno. Ciò si riverbera anche nel gioco delle inquadrature: nelle scene in auto in Taxi Driver ci sono molte inquadrature che vanno al di fuori dell’abitacolo del taxi ad inquadrare le strade e i passanti – molte più di quante ce ne siano ne Il cattivo tenente, dove si resta più spesso dentro la scalcinata “civetta” del protagonista poliziotto. Andando invece agli ultimi titoli della filmografia di Ferrara, l’introspezione di Siberia è un punto di non ritorno di una ricerca senza compressi sulle possibilità di traslare un immaginario interiore sullo schermo: la compromissione del reale con l’immaginario è una delle costanti cruciali del cinema di Ferrara, come già nella scena dello stupro della suora da cui prendeva le mosse Il cattivo tenente.

In questi film non c’è né un reale inquadrato materialmente e materialisticamente come “termine dell’immagine” come da scuola americana di quasi tutta la New Hollywood, né una commistione fluida e organica, come può essere nel cinema di un Fellini, di un Malick. Non per nulla lo stesso discorso dei generi non vuole mai essere cerebrale: il neo-noir, il film religioso e inevitabilmente sincretico, la fantascienza di 4:44 o, ritornando indietro, del poco noto Ultracorpi, sono i generi che più ricorrono, ma senza una decostruzione analitica come la fa, per dire, Herzog; Ferrara si appropria di forme e codici per ritrasmettere in maniera prepotentemente embrionale un messaggio personale. In 4:44, una preoccupazione ecologica si sovrappone a una celebrazione dell’amore nella sua semplicità salvifica: sullo sfondo, la fine del mondo.
Il cinema di Ferrara è un cinema deleuzianamente minore anche perché non c’è nessuno degli elementi alla base del tragico: non c’è catarsi ma il più delle volte puro annichilimento, altrimenti espiazione; non c’è né sete né acquisizione di conoscenza, ma pulsione; soprattutto non c’è quello scarto costante tra particolare e universale, se non in maniera frammentaria e incostante. Il percorso del personaggio di Willem Defoe in Siberia è archetipico, così come la scena della grotta e il confronto con un Doppelgänger che altri non è se non un fantasma del padre; ma le altre tappe del viaggio di Clint, dall’incontro con la ragazza eschimese fino alla lite domestica, sono “personali”, interiori, sconcertatamente privati. È tutto un collage, un’interferenza.

Nella lettura che Deleuze assieme a Guattari dava in Kafka. Per una letteratura minore, centrale era il concetto di deterritorializzazione, quell’essere nomadi e senza radici che certo si può applicare ai protagonisti di Kafka, ma che coinvolge innanzitutto il linguaggio, l’espressione stessa del racconto. Essere stranieri nella propria lingua: questa è per Deleuze la forza di Kafka. La lingua del cinema è apparentemente universale, pre- o se vogliamo post-verbale, ma se la condizione dello straniero forse non attraversa il cinema di Ferrara nella lingua, certo lo fa nello stile, in ciò che del linguaggio resta rimuovendo idealmente la lingua. La condizione dell’escluso o dello straniero è una costante, dai neo-noir newyorkesi ai film italiani: il recente dittico Tommaso/Siberia non è che il termine di un lungo percorso.

La condizione dello straniero – diversa da quella dell’alienato o del disilluso, in cui la consapevolezza ha più peso dell’ineluttabilità dell’espulsione – sta tutta in quella banale e insuperabile difficoltà a parlare che caratterizzava in modi diversi i due personaggi di Willem Defoe in Tommaso e in Siberia. Del resto anche negli incontri pubblici si riconosce chiaramente in Ferrara una voglia di confronto – rifiuto della forma classica e frontale della masterclass, interscambio continuo e a volte inverso con il suo pubblico – che non si risolve fino in fondo in una forma di comunicazione chiara – non aiuta la parlantina ormai iconica, un inglese rimasto ancora saldamente del Bronx.
Ecco allora affacciarsi ai nostri occhi un cinema periferico veramente tale, un cinema pulsionale nel senso vero del termine. Senza centro, tutto appendici, la cinematografia di Abel Ferrara si colloca in un rapporto linguisticamente speculare con il suo contenuto, con le sue costanti tematiche. Nell’apparente “incuranza” formale che muove il suo cinema, questa è un’intuizione registica potentissima, quand’anche fosse inconsapevole. Ed è da questa corrispondenza inedita tra personaggi e stile che si coglie tutta la sua grandezza.

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