
Silent Voice – Ricostruire una voce | Biografilm 2021
La nostra recensione di “Silent Voice” (2021) di Reka Valerik, uno dei film selezionati per la 17ª edizione di Biografilm Festival, di cui Birdmen Magazine è media partner. I film in programma saranno disponibili online su MyMovies e in presenza.
Khavaj, giovane lottatore di arti marziali, è dovuto scappare dalla sua terra, la Cecenia semi-autoritaria di Kadryrov, dopo che il fratello ha scoperto della sua omosessualità e lo ha minacciato di morte. Questo però è solo il prodromo del toccante Silent Voice, un antefatto violento e traumatico che rischia di trasformarsi in condanna.

Dopo un urto qualsiasi, è consigliato prendersi il proprio tempo e guardare il danno nel suo insieme, contemplarlo come se fosse una costellazione lontana, abbracciarlo e infine superarlo. Si tratta della possibilità – anzi della necessità – di andare oltre e di riuscire a pronunciare il nome di ciò che rischiava di annullarci. Parte proprio da questa esigenza il racconto crepuscolare e notturno di Reka Valerik che, attraverso uno sguardo discreto ma mai distante, affettivo (vedi il formato stretto, protettivo) ma mai invasivo, riesce a seguire i timidi primi passi che Khavaj, scappato in Belgio, compie per tornare a riappropriarsi della propria vita, o almeno di una vita diversa.
Il ragazzo però ancora non sa dire ciò che è successo e a dire il vero, non riesce proprio a parlare, a far sentire la sua voce. Tutto ciò che la sua bocca riesce a emettere è il ricordo lontano di una voce, la sensazione materica di un impedimento tirannico che lo ostacola nell’espressione di sé più diretta, impulsiva e sincera. Imprigionato in un mutismo psicologico ostinato, Khavaj non può che essere narrato dagli operatori, i terapisti, gli amici che lo accompagnano e lo aiutano in questo doloroso nuovo inizio.
Ma è un’altra voce quella che sembra dominare il racconto. Antica, dolce e tirannica, la voce di sua madre che dalla Cecenia gli narra preoccupata gli eventi accaduti dopo la sua partenza, la furia del fratello, la sua vergogna e il suo dolore per non avere sue notizie, la possibilità di avere delle cure per poter guarire da quella che crede essere una patologia. È una voce sofferta, ruvida e invasiva, compressa nel file audio di un cellulare che ha il potere di renderla al contempo voce fuori campo, voce in campo e voce del passato che tenta di imbrigliare il presente.

È la condanna del passato, un racconto di Khavaj che in virtù di quel bambino adorato perduto, lo definisce e lo obbliga ad un loop esistenziale senza soluzione. Ecco quindi che, all’impossibilità di Khavaj di narrarsi, sopperisce una macchina da presa più che mai sodale e rispettosa del suo soggetto, esule quanto lui. La regia si muove con lui e lo pedina anche negli anfratti della giornata apparentemente più insignificanti. È un punto di vista spesso sghembo, parziale, frammentario, che esclude rispettosamente dalla visione il volto di Khavaj, sempre impallato, in ombra, coperto dalle mani o dal vapore di uno specchio appannato.
Non è altro che la trasposizione formale e visiva di una persona che deve ricostruirsi, così tanto da dover scegliere un nuovo nome tra una lista di opzioni possibili. Ma è anche la volontà di espandere la vicenda singola e soggettiva a dramma fin troppo comune, lo sguardo esistenziale al problema politico. Allo stesso tempo però è una regia intima, che risalta nell’iper-vicinanza al suo soggetto, ne coglie lo sforzo corporeo, la costrizione e la fatica del fisico che introietta un urto, una ferita che forse non si rimarginerà.
Alla fine, la sensazione è che dopo soli cinquanta minuti di proiezione, il dramma di Khavaj sia anche un po’ di noi spettatori, attoniti e commossi. Non tanto per l’istinto all’identificazione con una parte offesa, quanto per l’universalità della sensazione di non riuscirsi a dire, di non avere la possibilità di esprimersi in quanto noi. Forse è proprio quell’inevitabile negazione dalla veduta del suo volto ad innalzarlo a corpo esempio dell’umanità, materia umana mortificata e per questo esemplare, totale e integrante; un suono ancora rotto dalla sofferenza provata, un sussurro timido e spezzato che non smette di farsi ascoltare, in attesa di diventare un canto.
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