
Marina Abramovic e la rivoluzione della performance
Le performance di Marina Abramovic hanno un carattere sovversivo e dissacrante nella loro forma più pura. L’artista serba è infatti conosciuta a livello mondiale per essere la “nonna della performance”, iniziando ad esibirsi in giovane età e facendosi conoscere immediatamente sulla scena per la prepotenza delle sue esibizioni che non hanno mai lasciato spazio al non detto, all’incompiuto. Al contrario, il pubblico è sempre stato condotto al grado massimo della partecipazione, fungendo da testimone allo strenuo dell’azione fisica che Marina fa sua con un’andatura esacerbata, degna del più esasperato dei montaggi vertoviani. La sua più grande capacità performativa sta non tanto nell’usare il proprio corpo come elemento di scena in un modo che raramente è stato sfiorato da altri performer, (e raramente a soggetto femminile), ma nella capacità dell’artista di prendere il tempo con le sue mani e modellarlo come carta pesta.
Le lancette dell’orologio sembrano colare sulle opere della Abramovic, come gli orologi molli di Dalì, e riversarsi su tutto lo spazio che da lei arriva al pubblico, lasciando un piccolo lembo di concretezza a separare l’artista dallo spettatore; qui si insinua il gancio tra questi due elementi che vengono così messi in comunicazione. Le rappresentazioni che segnano l’esordio dell’artista su questo orizzonte performativo prendono il nome di “Ritmi”, (Rhythm 10, Rhythm 0, Rhythm 5), quasi a sottolineare proprio quella dimensione temporale distorta che le è propria, oltre che l’innata capacità di entrare in uno stato di piena vulnerabilità col suo corpo.
In questo senso il film documentario The artist is present si colloca perfettamente nel contesto di cui abbiamo parlato sino ad ora; il titolo rappresenta già la massima per eccellenza delle sue rappresentazioni. “L’artista è presente” significa che l’opera non può esistere senza l’artista esattamente per lo stesso principio per cui l’artista non potrebbe mai esistere senza essa e, nel caso specifico della performance, senza il proprio pubblico, creando un equilibrio commutativo necessario. Questo interessantissimo viaggio nella vita della Abramovic si sofferma soprattutto su un’opera che ha avuto una certa risonanza a livello internazionale: si tratta dell’omonima The artist is present, rappresentata al MoMA a New York nel 2010. L’artista ha trascorso tre mesi, dal 9 marzo al 31 Maggio, da lunedì a sabato per circa otto ore al giorno, seduta su una sedia di legno con lo sguardo rivolto in avanti verso la persona che si sarebbe seduta di fronte a lei dall’altra parte del tavolo, (tavolo tolto solamente durante l’ultimo periodo dell’esperimento, al fine di garantire una compartecipazione maggiore e privare completamente artista e pubblico di ogni barriera psico-fisica). Come viene perfettamente spiegato nel film, l’opera era collocata all’interno di un grandissimo allestimento dedicato a Marina nel quale venivano ricreate le sue opere più famose.
Le riproduzioni creata al fine di ripercorrere la vita dell’artista richiedevano la costante presenza di uno o più corpi che le traducessero in modo non troppo distante dalla loro prima apparizione, (eccezion fatta per alcuni file multimediali che venivano mostrati come video in alcune pareti prive di allestimento). Qui si ritrovavano anche le messe in scena dei dodici anni di attività, come una decade fatta di “passi a due”, che avevano come co-protagonista il compagno Ulay, (anch’egli appartenente al panorama della perfomance). Queste arterie perfettamente arredate di immagini e corpi conducevano tutte al cuore della presenza artistica su cui si incentrava la mostra: Marina, austera e intoccabile, che si stagliava al centro di una stanza disadorna. Quel che il documentario ci mostra è l’empatia che si veniva a creare con ogni persona che si ponesse davanti alla performer e che, come in piena catarsi, scoppiava in lacrime o semplicemente era desiderosa di fermarsi più tempo di fronte alla pace della donna serba.
Circa un milione di persone hanno visitato il MoMA in quel periodo, (per un totale di 736 ore), ed all’interno di questo film le vediamo passare con ovvia velocità, soffermandoci solo su casi esemplari come l’incontro con Ulay. Da ciò che Marina racconta, invece, sembra che quell’immenso flusso sia trascorso di fronte a lei come un effetto rallenty che tocca quasi il grado zero.
Durante l’allestimento, durante quella che possiamo definire l’organizzazione del profilmico dell’esibizione, diverse persone hanno manifestato la preoccupazione che l’artista sessantatreenne non avrebbe retto la pressione ad un livello così estremo, ancora una volta. La stessa perfomer manifestava le sue perplessità, ma nonostante questo prese comunque la decisione di sedersi su quella sedia e di mettersi in scena ancora una volta creando l’ennesima opera grandiosa senza precedenti. Marina Abramovic è un’artista che supera se stessa e che va oltre ogni limite fisico impostole di natura, facendo delle pulsioni umane più intime la carne delle sue rappresentazioni.
Tra le ultime cose che la Abramovic asserisce durante la ripresa del documentario c’è la celebre frase che compone gran parte delle sue opere: «the hardest thing is to to something which is close to nothing».
Alla fine della visione l’unica cosa che mi appare chiara è che, nonostante l’immobilità auto-indottasi, ciò che fa Marina, ciò che la rende l’artista che oggi noi tutti conosciamo, sia qualcosa che è ben al di là del mero e insaziabile “nulla”. Forse la cosa più difficile è rimanere impassibili di fronte a qualcuno che tocca così tanto l’intimità di ognuno di noi come se ci conoscesse ad uno ad uno, ma senza mai averci incontrati davvero.
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