
The Human Voice – Se Almodóvar rende umana Tilda Swinton
Pedro Almodóvar sceglie Tilda Swinton – interprete dalle fattezze aliene, più che umane – per dare corpo a La voix humaine immaginata dal drammaturgo Jean Cocteau nel 1930. Per intuire la vivace profondità che Almodóvar condensa nei 30 minuti di The Human Voice (2020) potrebbe bastare già questo cortocircuito tra cinema e teatro, tra umano e alieno, tra tangibilità del corpo e immaterialità della voce (poco importa se artificiale, quasi robotica, o davvero umana).

Eppure, nel cortometraggio presentato furi concorso a Venezia 77, troviamo molto di più: Almodóvar riesce ad attingere al monologo di Cocteau cogliendone la drammaticità e, al tempo stesso, facendolo proprio. Una girandola di colori intensi e vivaci, unita alla cura per il dettaglio e all’attenzione per gli interni, permette a chi guarda di sentirsi a casa: a giudicare dall’estetica siamo indubbiamente in un film di Almodóvar. Non da subito, però, e non del tutto.
Il prologo, infatti, ci mostra Tilda Swinton regale e ieratica in abito rosso sgargiante: il suo corpo esile svetta con eleganza innata al di sopra dell’ampia gonna sospesa dalla crinolina, la vediamo ondeggiare con sconforto, sullo sfondo un capannone industriale. Una bambola di porcellana fuori misura? Una ballerina da carillon fuori posto? Non lo sappiamo. Poco dopo Swinton ricomparirà insaccata in un abito nero, assai meno maestoso. Buio.

Siamo davvero al cinema o siamo a teatro? La preannunciata rivisitazione di Cocteau si presenta più che altro come il backstage di una Fashion Week in cui la modella non ha alcuna voglia di sfilare, anzi, è elegante suo malgrado.
Senza dubbio è una gioia per gli occhi vedere come Almodóvar sfrutti pienamente questi 30 minuti per concretizzare il suo gusto estetico in abiti haute couture, oggetti di design e dipinti celebri. Non ha alcuna importanza che un outfit monocromatico Balenciaga a cui fa da sfondo un dipinto di Artemisia Gentileschi o di De Chirico sembri troppo perfetto: siamo a teatro, siamo nella finzione conclamata.

Chi guarda si lascia avvolgere da questa atmosfera da rivista di interior design: sa di passeggiare in un incantevole castello di carte destinato a crollare su sé stesso da un momento all’altro, ma non per questo rinuncia a godersi lo spettacolo. Il bello deve ancora arrivare, perché, se finora quasi tutto è come ce lo saremmo aspettato, non resta che attendere le variazioni sul tema.
D’altra parte The Human Voice trae liberamente ispirazione da un’opera inscenata già centinaia volte e il tema è dei più classici: la fine di una storia d’amore, uno struggente addio telefonico tra una donna e il suo ex amante. Questo è quel che intuiamo, ma è davvero così? Lui è assente, non conosciamo il suo aspetto e non sentiamo mai la sua voce. Intuiamo la sua esistenza attraverso l’esistenza di lei. Lei esiste, non siamo davvero certi che sia umana però, dato che a interpretarla, in questo caso, è un’attrice dalla grazia eterea, quasi ultraterrena.

Pedro Almodóvar e Tilda Swinton si divertono a orchestrare una messinscena perfetta, giocano con il pubblico, ammaliandolo e, subito dopo, sbattendogli in faccia paradossi palesi, come a dire: ecco un bel rompicapo, riesci a risolverlo? Probabilmente no, e allora sei ancora così convinto che la bellezza che ci circonda sia futile e superflua?
In The Human Voice tutte è esteticamente perfetto e, al tempo stesso, tutto stride rivelando l’assurdità della situazione in cui si arriva a dirsi addio al telefono, la crepa. Fin da subito Almodóvar dissemina indizi che ci portano a sospettare, a percepire che c’è qualcosa di strano in questa incantevole messinscena.

La sequenza ci mostra Tilda Swinton che acquista un’ascia: la sua figura sinuosa (in completo Balenciaga celeste) risalta e stride sullo sfondo asettico del negozio di ferramenta. Sarà l’unica scena in cui vedremo la protagonista fuori dalla sua abitazione. Sentiamo che Swinton parla rigorosamente inglese e così sarà per tutta la durata del corto: The Human Voice, infatti, è la prima produzione di Almodóvar in inglese e probabilmente non avrebbe potuto essere recitata in lingua diversa, visto che a dare corpo alla “voce umana” di cui si parla è un’attrice inglese.
L’appartamento in cui ha luogo il resto del cortometraggio, per quanto piccolo, ci viene mostrato in tutta la sua dettagliata eleganza. Almodóvar ci guida al suo interno in un gioco di inquadrature ben orchestrato che immortala Tilda Swinton mentre armeggia e si aggira nell’abitazione. Abbiamo anche la possibilità di vederla dall’alto perché l’appartamento non ha soffitto: in realtà, infatti, è un set posto all’interno del capannone industriale di cui sopra. In questa casa finta Tilda Swinton si muove in maniera innaturale, compie gesti insensati e carichi di disperazione, è determinata, ma si interrompe.

È una creatura aliena e muta quella che vediamo aggirarsi sul set che dovrebbe essere la sua casa perfetta, inabitata. Una serie di bagagli ordinatamente riposti, una abito da uomo abbandonato e un cane in attesa lasciano intuire un’assenza che, gradualmente, porta la protagonista all’esasperazione e la spinge a quella che dovrebbe essere una scelta drammatica: ingurgitare 13 sonniferi. In questa atmosfera sospesa però, sono proprio i farmaci a farci intuire una crepa, una nota che stride e denuncia la finzione: le pastiglie allegramente colorate vengono ingurgitate e Tilda Swinton si adagia sul letto perfettamente composta nella sua grazia aliena.

Almodóvar gioca con il suo pubblico e fa sì che Swinton diventi davvero umana solo quando, al risveglio, parla al telefono e finalmente ci fa sentire la sua voce che esprime mille emozioni, si spezza, tentenna, trasuda rabbia e risentimento, implora pietà. La prima frase che Almodóvar le fa dire?
“Hello? Oh…it’s you. Oh…you’re turning into a robot….”
E, poco dopo, la stessa protagonista ammette di aver vissuto gli ultimi tre giorni “come un automa”. Il pubblico si illude: ora che finalmente questa voce umana risuona la finzione dovrà ben terminare e si parlerà solo di cuori spezzati, di amori struggenti e di dipendenza affettiva. Eppure…manca ancora la messinscena finale, quella meglio orchestrata, quella in cui è Tilda Swinton, viva e meravigliosamente punk, a prendere il sopravvento sulla protagonista immaginata da Cocteau. E, finalmente, Swinton e Almodóvar riescono a dare una degna conclusione a quello che rischiava di essere un patetico soliloquio.

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sembra stra interessante dalle foto!