
The Serpent – L’elegante ritmo della suspense
Ormai risulta quasi un luogo comune, ma sta di fatto che la serialità contemporanea, con l’evoluzione dei canali distributivi e dei linguaggi narrativi, ha portato il pubblico di ogni estrazione ad appassionarsi alla complicata e controversa figura dell’antieroe, portando a parteggiare per figure criminali sfruttando la possibilità di approfondirne le ragioni di fondo attraverso la messa in forma di narrazioni complesse, in cui gli orizzonti valoriali vengono decostruiti, frammentati e portati a scontrarsi contro l’umanità profonda di personaggi verosimili nel loro agire in direzione ostinata, contraria, ma condivisibile. Questa tendenza viene fortemente messa in discussione da The Serpent, serie true-crime co-prodotta da Netflix e BBC che, partendo da fatti di cronaca, orchestra un meccanismo di tensione tale da smuovere ogni convenzione di agency spettatoriale moderna.

Partiamo dalle fonti: a fine anni ’70 Charles Sobhraj (dall’alias Alain Gautier, interpretato da un fenomenale Tahar Rahim), mercante di pietre preziose in stanza a Bangkok, affascina turisti facoltosi provenienti da tutto il mondo e in cerca di avventure esotiche per rubarne soldi e identità, drogandoli, uccidendoli e facendone perdere ogni traccia. Le premesse renderebbero semplicissimo il lavoro di scrittura per chi volesse porre lo spettatore di The Serpent – facilmente avvicinabile a un facoltoso viaggiatore dell’esotico – nella posizione del malcapitato turista, che si invaghisce di Gautier parteggiando per lui e per la sua “causa” criminale. Ma se questo accade alla co-protagonista, Marie-Andrée (con l’intenso volto di Jenna Coleman), la scelta degli autori verte su meccanismi diversi.

Il lavoro narrativo di The Serpent si basa infatti su un’attenta e misurata costruzione del racconto, attraverso un movimento temporale alternato tra gli eventi in momenti e luoghi diversi, con al centro l’appassionata indagine portata avanti dal diplomatico Herman Knippenberg (Billy Howle), che esclude volutamente ogni possibile movimento profondo all’interno della figura di Sobhraj, schermandone le azioni tramite la messa in scena di un corpo attoriale ossimorico che veicola sicurezza e fragilità, fascino e patetismo, senza voler mai restituire un’argomentazione soggettiva della direzione del suo agire, solo vagamente accennata in sequenze sufficienti ad accrescere le componenti tensive che ne sottendono la pericolosità esplosiva.

The Serpent prende una posizione, ribadita nelle frasi di rito a coda di ogni prodotto che si rifà a fatti reali, ricordandoci quanto sia rischioso giocare con la morale interna a un prodotto culturale: Netflix e BBC fanno leva sulla fattualità del racconto della serie e sulla sua inquietante somiglianza con prodotti analoghi di pura fiction per suggerire un necessario lavoro di decostruzione dei racconti che prendono troppo alla leggera il contesto malavitoso per speculare sul fascino della soggettività criminale; tutto questo senza però mani scadere nel moralistico, lasciando aperta ogni strada possibile attraverso la costruzione di un reticolo legale sfaccettato, fallibile ma non fallimentare. In The Serpent a parlare sono le azioni, orchestrate ad arte in una versione ipertrofica della suspense di stampo hitchcockiano che regala alla serie un ritmo agile e serrato lungo gli otto episodi.

All’articolazione del ritmo narrativo concorre anche una ricerca linguistica chirurgica: sospendendo per un istante l’inverosimile ritratto di un mondo decisamente troppo poliglotta per essere vero, il gioco di rimbalzi tra lingue diverse apre finestre policrome su momenti differenti del discorso, restituendo dialoghi che cambiano di segno (e di ruolo nella macchina narrativa) a seconda che siano pronunciati in francese, inglese o altro, aprendo lo schermo del profilmico a un racconto virtualmente globale nel suo respiro polifonico. Il tutto viene rimarcato da una ricerca estetica dell’immagine che si fa sinestesia della fruizione, creando un grand tour seriale attraverso ricercati spessori cromatici e sonori.

Tutto ciò, a prescindere dalla marcata competenza autoriale, si rende possibile grazie ad un lavoro recitativo e interpretativo che restituisce appieno la robustezza e l’ambizione di questa serie Netflix: se Tahar Rahim non ha bisogno di conferme per decretare il suo talento già evidente fin dagli esordi, incanta la bravura di Jenna Coleman, già volto BBC con Doctor Who, che dimostra un talento drammatico decisamente inedito; tanto la componente mimentica quanto l’individuale apporto linguistico delle performance rendono la messa in scena attoriale di The Serpent un punto di forza del prodotto.

Netflix e BBC con The Serpent inaugurano un nuovo paradigma del linguaggio quality applicato alle serie crime, in cui la figura criminale perde la necessità di farsi centro gravitazionale della fascinazione dello spettatore, ma può permettersi di tornare a spaventare, a disgustare e a repellere restituendo un racconto in cui tutto l’investimento emotivo sta dalla parte di chi mette in gioco ogni parte di sé per chiudere il circuito di un melodrammatico flusso di violenza il cui senso, anche se c’è, non ne diventa la ragione, il tutto attraverso una messa in scena potente, bella nel senso esteticamente più ricco del termine e radicalmente mai moralista.
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