
Alla Biennale Teatro si invertono i punti di vista: il teatro “non-umanista” di Manuela Infante
Al Teatro Piccolo Arsenale, Realismo ha chiuso il dittico proposto da Manuela Infante nell’ambito del Festival Biennale Teatro 2019. L’opera, che si propone di trattare oggetti inanimati come “attanti” al pari degli umani, fonde le anime della musica e della filosofia, così come in Estado Vegetal, monologo polifonico sull’impossibilità di dialogo tra piante e umani.
Il dialogo, certamente, è stato una cifra stilistica di questo Festival, sia esso concepito come interazione corporea che esorcizzi l’impossibilità del dialogo stesso, sia esso supremazia di un teatro di parola da cui non si può sfuggire. Il dialogo come concepito dalla direttrice del Teatro de Chile, oltrepassa il limite convenzionale del testo e affronta la drammaturgia non esclusivamente come pratica di scrittura ma come architettura di un’esperienza sensoriale, quindi arricchita da un uso consapevole della luce e dell’oscurità e da un’incidenza ritmica che restituisce il protagonismo al suono. Entrambe le opere in cartellone, in questo senso, si sviluppano su entrambe le forme dialogiche: se da un lato la comunicazione si fa riflessione etica veicolata in modo analitico dalle parole, dall’altro i vocaboli si trasformano in intercalari esasperanti e vocalizzi buffoneschi, fino a tacere dinanzi alla supremazia del canto della foresta – reso con la tecnica della loop station – e alla pretesa della materia di risuonare in modo eloquente nel silenzio umano.
In Estado Vegetal, una prodigiosa Marcela Salinas interpreta una serie di personaggi chiamati a testimoniare sulla dinamica di un misterioso incidente: la crescita smisurata di un albero, danneggiando i fili della rete elettrica, provoca un black out fatale per un giovane motociclista. L’inchiesta in corso si frammenta in rivoli di testimonianze parzialmente ricomposte; progressivamente, rispetto ai protagonisti iniziali, piante e alberi acquisiscono primario diritto di parola in quanto primigeni abitanti di un Eden biblico in origine interamente vegetale: vittime dell’usurpazione di un territorio operata nel nome dell’ “impero della luce” à la Magritte, complottano per tingere di verde il pianeta. L’intuizione sottile della Infante qui è giocare con l’ambiguità della definizione di “stato vegetale” a cui viene ridotta la giovane vittima, ma che è invece concepita dagli antichi alberi come un trapasso da un regno effimero e mortale a quello eterno e inamovibile della pianta. I due regni si sfiorano continuamente, tutte le volte che gli elementi naturali integrano invisibilmente le nostre vite, talmente spesso che smettiamo di riconoscerli appiattendoli sullo sfondo permanente del quotidiano. Infante restituisce dignità esistenziale a questo spazio, amplificando il linguaggio ermetico e senza sosta delle piante, con suoni che si sovrappongono fino a prendere il sopravvento anche sulla logica ramificata del testo scritto e sulle metafore vegetali impiegate nel linguaggio.
Si intuisce la persistenza di due binari espressivi che non di rado faticano a porsi in dialogo, nonostante l’accurata pertinenza rispetto al tema: da un lato, la narrazione della storia principale, dall’altro, una parte cospicua dello spettacolo è un inno filosofico alla vegetazione e alla perfezione senza menzogna dei suoi meccanismi di funzionamento. Nonostante Salinas caratterizzi fino al parossismo i suoi personaggi, infondendo in ogni corpo un ritmo sempre diverso, i caratteri si confondono e si dissolvono quando sulle vicende dei personaggi si addensano temi complessi che vanno dal dramma del disboscamento a quello della monocoltura.
La densità di una riflessione filosofica che mette in discussione il primato dell’umano, difficilmente si concilia con la narrazione principale che prende corpo attraverso protagonisti tutti umani; le invocazioni pregne di intellettualismo, debitrici a pensatori come Mancuso e Marder che esasperano la tradizione dell’ecologismo liberale inglese, permangono come manifesto programmatico, in appendice a una storia il cui mistero viene sacrificato alla spiegazione accademica e raziocinante.
Dichiaratamente interessata a un teatro non-antropocentrico e non-umanista, Manuela Infante mette in discussione la pretesa moderna di fare dell’uomo la misura di tutte le cose, insistendo sul grado di indipendenza di piante e oggetti che rivendicano un’esistenza autonoma e degna di riconoscimento. Infatti, anche in Realismo si scorge il tentativo di indirizzare il mistero della pratica teatrale verso un animismo ancestrale che domini sull’ego antropocentrico degli spettacoli tradizionalmente intesi.
Sulla scena, l’ ambiente polveroso di una casa fatiscente, nel Sud America che sogna l’Europa e la tecnica: l’autoritarismo della tradizione si scontra con l’opinione imperante della scienza moderna. Il metro di comprensione dello spettacolo diviene subito chiaro: le “cose” esistono, e si impongono con realismo sulle esistenze degli uomini che sommariamente trattano il non-umano come sfondo delle proprie vicende.
In questa casa degli spiriti, l’epopea famigliare prende corpo e riesce a fondersi con la materia: per quattro generazioni, alcuni membri della famiglia ereditano un legame particolare con gli oggetti che intanto si accumulano nei decenni, e vi legano le sorti del proprio destino. Assistiamo all’abbandono di un figlio, a matrimoni infelicemente combinati, al fallimento di un’azienda di aquiloni: per ognuna di queste vicende, il destino degli oggetti familiari si lega in modo indissolubile alla vita dei possessori, e ciò si riflette non solo sul piano delle idee, ma è reso in modo evidente sulla scena.
Gli oggetti in questione – trafiletti di giornale, veli da sposa, tappeti, scontrini e così via –non si limitano ad essere protuberanze del fisico, ma a modo loro ne determinano l’entità del movimento. Se in Estado Vegetal si ha l’impressione di una farsa in cui l’impronta umana si cela sempre dietro l’azione scenica, in Realismo, prima italiana proprio alla Biennale, gli oggetti si animano e suscitano una reattività intensa, ribellandosi alla volontà umana di armeggiare con essi. Tra rimozione e radicamento, accumulo e gioia rovinosa di distruzione, la finzione scenica è tale che gli ambienti sembrano crearsi da sé per raccontare il tempo trascorso tra le generazioni: le “cose” si accumulano, le sedie diventano icastiche torri di Babele, i tavoli si scompongono in perfette geometrie concentriche.
Sembra fallace la convinzione che l’oggetto esista per l’uomo-attore: nello spettacolo, si ha la percezione che la materia sia in grado da sola di reinventarsi, fornendo le condizioni per un movimento scenico, e attoriale, sempre nuovo. «Le cose si sollevano per il loro stesso peso», risorgono e rivendicano uno spazio di esistenza, ridicolizzando l’umano che si erge a creatore assoluto.
Estado Vegetal e Realismo sono un tentativo di svelare la verità dell’esistenza delle piante e delle cose, ma se nel primo l’enigma del mutismo vegetale sembra sciolto solo grazie all’intervento della voce umana, nello spettacolo realista la materia, che riflette la luce e crea naturalmente il suono, sembra capace di determinare l’evento scenico in modo autonomo: Infante riesce a far funzionare le cose senza dare l’idea dell’impronta umana celata dietro di esse.
La regista cilena tuttavia non rinuncia mai del tutto all’impianto saggistico del testo: una parte di entrambi gli spettacoli viene riservata alla spiegazione, pericolosamente didascalica, di ciò che intende per “drammaturgia non-umanista”. L’artista, pur rischiando di appesantire la narrazione, considera imprescindibile il momento in cui il pensiero filosofico si esprime in quanto tale e non con l’artificio della storia: l’equilibrio tra queste due componenti rimane precario ma è fondamentale nel suscitare una certa reazione spettatoriale.
Non si può negare, in entrambi i casi, un certo gusto per il misticismo esoterico: c’è un’attrazione per la dimensione del rituale, che fa degli uomini ora gli officianti di un’idolatria capitalistica, ora le vittime sacrificali di una religione in cui, come per la vegetariana Yeong-hye, la comprensione dell’ordine delle cose passa attraverso la dissolvenza. Nell’immaginario della regista cilena «non si esce dall’umano con mezzi umani», e i corpi degli attori finiscono per offrirsi alle piante e alle cose, in una compenetrazione totalizzante che è dissoluzione, che è pienezza.
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