
Luca Ronconi – Il teatro dell’utopia e della rivoluzione
Luca Ronconi ha attraversato da assoluto protagonista la scena teatrale italiana e europea degli ultimi cinquant’anni, ricevendo spesso contestazioni feroci al suo lavoro e alla dimensione dei suoi allestimenti, tappe di un avvolgente e tumultuoso viaggio di scommesse impossibili, progetti di straordinaria complessità, rivoluzione e utopia.
Poco influenzabile dalla critica e anzi ad essa opportunamente reattivo, Ronconi perseguì sempre l’ambizioso programma di un teatro costantemente proiettato oltre i propri limiti, volto a scardinare retoriche teatrali – dalla deflagrazione della scatola teatrale e all’incontro fra attori e pubblico sulle macerie dei sipari, delle quinte e delle pareti sceniche – con grande energia dissacratrice e profondità vertiginosa.

Basti pensare all’epocale spettacolo che lo consacrò alla fama internazionale: messo in scena in una calda serata del 1969 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, l’Orlando Furioso, rivoluzionario nell’idea di rappresentazione e antichissimo come un ritorno alla commedia dell’arte più vera e sanguigna, (ri)portava il teatro nelle piazze, liberando tutta la sua ira giocosa in una chiesa sconsacrata. Durante l’azione simultanea, gli spettatori – a diretto contatto con gli attori – si aggiravano affascinati e magnetizzati del flusso ininterrotto di differenti palcoscenici, muovendosi secondo il proprio gusto, scegliendo sguardo e approccio.

Questo teatro viscerale e cerebrale, colto e popolare, trascende il tempo proprio grazie alla costante indagine delle possibilità dello spazio scenico, inteso non solo come un contenitore scenografico, ma come parte integrante e vivente della creazione drammaturgica dello spettacolo. Moltissimi spettacoli di Ronconi avevano infatti bisogno di uno spazio specifico, non come espediente narrativo, ma come elemento cardine della drammaturgia che nelle diverse occasioni prendeva corpo:
«Cos’è per me lo spazio? Ho sempre ritenuto che ogni testo teatrale, ovvero appositamente scritto per il teatro, oppure letterario, ma suscettibile di diventare un fatto teatrale, presuppongono spazio unico. Ho sempre pensato che le coordinate spaziali, intendo in rapporto al pubblico, dovessero variare di testo in testo, e che il teatro si può fare ovunque»1.
La rivoluzionaria lezione del pragmatico architetto dell’utopia, seguendo un percorso visionario che solca le acque del lago di Zurigo con Das Kätchen von Heilbronn, si infiltra nelle intercapedini delle mura di XX (scritto con Rodolfo Wilcock, debuttò nel 1971: quel che accadeva tra ogni singolo spettatore e l’attore che l’accompagnava in una delle stanze della casa a due piani sarà sempre un segreto fra loro), e nei meccanismi degli ascensori-palcoscenico dell’acrobatica messa in scena dell’Orestea nel 1972 (che riuniva le tre tragedie classiche di Eschilo in un’unica saga frammentata), attraversa gli enormi stanzoni degli ex cantieri navali della Giudecca, dove Utopia andò in scena per la Biennale Veneziana del Teatro del 1975, per poi giungere, tra le tante straordinarie mete, alla strada davanti al Palazzo dei Diamanti a Ferrara dell’Amor nello specchio, e ai vecchi laboratori di scenografia alla Bovisa di Infinities.

Ponendosi sempre in direzione ostinata e contraria al teatro delle sedie e dei velluti, Ronconi ha saputo inventare un rapporto virtuoso tra qualsiasi testo e lo spazio scenico della rappresentazione, sfidando tecnica e diversità degli ambienti da plasmare. E anzi è proprio questa comunicazione dinamica e mutevole tra dimensione orale e visuale a conferire un ulteriore orizzonte di significato alla parola, la cui percezione è amplificata, e non semplicemente supportata, dalla scenografia e dall’estetica visiva.
Il teatro di Ronconi non consisteva necessariamente nell’annullamento di tutti i codici teatrali, ma nell’uso che se ne faceva per indagare gli abissi della relazione teatrale, costruendo una drammaturgia totale volta ad indagare e decostruire il ruolo dei personaggi, dell’attore e del testo, così come lo stesso rapporto con lo spettatore, continuamente scosso e disorientato da un “linguaggio” (inteso come la somma di tutti i dati che il palcoscenico trasmette) che, nella sua mancanza di certezze e di punti di riferimento, attua un vero e proprio “sconfinamento” nell’intimità percettiva del pubblico.

Così il singolo spettatore, investito di un nuovo statuto, viene spinto ad “attivarsi”, a porre sè stesso in rapporto con qualcosa di diverso: il mondo.verso una nuova configurazione, si vede plasmato e si ritrova trasformato. Questo attrito tra il reale percepito e il reale potenziale immaginato e raccontato sul palcoscenico mostra alle persone cosa potrebbero essere e cosa sono realmente, cambiando il modo di vedere, sentire e vivere il mondo. E’ proprio così che il teatro di Ronconi, ponendosi in maniera critica, spesso scomoda, diventava un’esperienza traumatica e dunque significativa non solo per il pubblico, ma anche per i suoi protagonisti davanti e dietro le quinte: abbandona il solo fine d’intrattenimento per configurarsi come forma di comunicazione e conoscenza, e dunque avere un senso sociale e civile in grado di tramandarsi.

Come spiegano chiaramente le parole dello stesso Ronconi, la frizione fra teatro e vita è significativa quando diventa conflitto, stimolo, provocazione e dunque riflessione:
«Da noi è sempre stata condotta una specie di campagna dissuasiva. Quante volte ci siamo sentiti dire che un certo spettacolo era “contro il pubblico”, soltanto perché magari cercava di rivolgersi a un pubblico migliore? Chi fa teatro è sempre un po’ “contro il pubblico”, ma in una maniera fertile. Se c’è identità ovviamente non c’è comunicazione: quando il pubblico si riconosce troppo in quello che vede potrà porsi un’identificazione, sostitutiva della comunicazione, che invece è necessaria nei fenomeni autenticamente culturali, dove l’attrito è indispensabile».3
Ronconi intendeva fare un teatro che non fosse dimenticato all’accendersi delle luci della sala, la cui esperienza si prolungasse invece nel tempo, oltre l’uso “gastronomico” della serata teatrale, arrivando a radicarsi nella sfera dei ricordi del singolo. La memoria dello spettatore è infatti non solo l’unico strumento che permette di conservare viva “nel fisico” l’esperienza teatrale, altrimenti prigioniera dell’effimero, ma anche il luogo deputato in cui poter riflettere, ascoltarsi interiormente, comprendersi e dunque identificarsi: essa è dunque uno spazio altro, privilegiato, rituale, proprio come può e vuole essere il teatro.

Quello del teatro è però uno spazio in bilico: se già molto spesso diviene un museo-archivio di spettacoli e storie, oggi rischia persino di perdere la sua dimensione essenziale di compresenza e contatto, annichilito dall’inevitabile processo di virtualizzazione che ha travolto la nostra quotidianità. Ma il cammino intrapreso da Luca Ronconi dimostra che le arti performative possono e devono rifunzionalizzare lo spazio del teatro, digitale o fisico che sia, rendendo rilevante e trasformativa l’esperienza teatrale per il singolo e la comunità.
E allora, tentando di sbirciare oltre l’orizzonte presente e nelle profondità del futuro: quale direzione auspicare per il teatro, quale meta per il nostro sguardo? Forse è impossibile rispondere con certezza a questa domanda, ma finché quel “qualcosa” che accade sul palcoscenico, o in qualunque altro luogo di rappresentazione più o meno canonico, avrà il potere di evocare la vita, di seminare nell’anima dello spettatore una riflessione, un cambiamento o perfino un’obiezione, quel “qualcosa” sarà sempre teatro. Qualunque sia la meta di questa traiettoria, il modo migliore per affrontare questa fine ci sembra augurare, al teatro, un nuovo, imminente, desiderato, punto di partenza.

1 Luca Ronconi, Gianfranco Capitta, Teatro della conoscenza, Laterza, Bari 2012, p.34.
2 Luconi Massimo (a cura di), Luca Ronconi. Il palcoscenico dell’utopia, p.46.
3 Luca Ronconi, «Il Patalogo», Vol. 17-18, Ubulibri, Milano 1994, p.123.
Bibliografia:
Milanese Cesare, Luca Ronconi e la realtà del teatro, Feltrinelli Editore, Milano 1973;
Capriolo Ettore, Intervista a Luca Ronconi, in Jan Kott, Mangiare Dio, Il Formichiere, Milano 1977;
Luca Ronconi, Oltrepassare la soglia, intervista a cura di Lorena Preta, «Psiche», 2, 2002, pp. 99-108;
Ronconi Luca, Capitta Gianfranco, Teatro della conoscenza, Laterza, Bari 2012;
Luconi Massimo (a cura di), Luca Ronconi. Il palcoscenico dell’utopia, Edizioni Clichy, Firenze 2016.
Leggi anche
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista
[…] in una tradizione del teatro italiano ben nota, consacrata dall’Orlando furioso di Luca Ronconi, messo in scena per la prima volta a Spoleto nel 1969, nella forma del teatro itinerante: gli […]
[…] Il teatro è l’arte della relazione, del gioco e della ritualità, un’arte che permette da sempre agli esseri umani di elaborare i grandi temi esistenziali tramite riti comuni ed esplorare le sfumature della propria interiorità. Non serve dunque ricercare un settore specifico per individuare l’anima sociale di quest’arte, esiste tuttavia un modo di fare teatro che sceglie di porre l’accento in particolar modo sull’aspetto relazionale e curativo. Per questo e altri motivi definire il teatro sociale è sicuramente complesso e probabilmente riduttivo. Rifacendoci alla concezione odierna, quando si parla di teatro sociale ci si riferisce a un teatro che opera in contesti di emarginazione con fini di integrazione e rivalutazione sociale, in un’ottica terapeutica che mira a curare (con l’accezione etimologica del “prendersi cura”) il gruppo coinvolto e la società stessa. Anche in questi termini però non si può parlare di un metodo preciso riproponibile uguale in ogni contesto, ma di una modalità aperta. Resta come costante il protagonismo del gruppo coinvolto che determina la direzione degli interventi teatrali, e che può, al termine di un progetto, lasciare un segno nella società in cui vive. […]