
Il dialogo tra cinema e musica – Intervista a Ginevra Nervi
In questa intervista a Ginevra Nervi, compositrice, cantautrice e producer di musica elettronica nata a Genova nel 1994, abbiamo parlato del dialogo che si instaura tra cinema e musica nel suo lavoro e nella sua formazione. Ginevra Nervi è autrice di brani originali per diverse serie come Il Processo, Il Cacciatore 2, L’ispettore Coliandro, Curon, Skam 4. Nel 2019 ha firmato la colonna sonora per L’ultimo piano, prodotto dalla Scuola Gian Maria Volontè e presentato alla 37esima edizione del Torino Film Festival. Nel 2020 tre film a cui ha lavorato sono stati presentati alla 77esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia: Fuoco Sacro di Antonio Castaldo, per il quale ha firmato la colonna sonora originale, Non odiare di Mauro Mancini, per cui ha composto il brano originale Miles away con Pivio e Aldo De Scalzi, e 50 (o dos ballenas) di Jorge Cuchì, in cui ha assistito Giorgio Giampà nella produzione della colonna sonora. Inoltre a febbraio 2020 ha pubblicato il suo singolo P!2, mixato da Maurizio Borgna e masterizzato da Heba Kadry (Björk, Ryuichi Sakamoto, Slowdive) e il 23 aprile uscirà il suo nuovo EP.
Il 2020 per te è stato un anno ricchissimo. Tre film a cui hai partecipato, in vesti diverse, sono andati al Festival del Cinema di Venezia dello scorso anno, ed è uscito il tuo primo singolo da solista.
Sì, sono andata a Venezia con tre progetti. La più grande soddisfazione è stata andarci con Fuoco Sacro di Antonio Maria Castaldo, il documentario sul corpo dei vigili del fuoco, perché è il lungometraggio per il quale ho firmato la colonna sonora originale e il sound design. Gli altri due progetti sono sempre due lungometraggi: uno è Non odiare di Mauro Mancini, la cui colonna sonora è firmata da Pivio e Aldo De Scalzi, che sono due compositori con cui io collaboro ormai molto spesso dal lontano 2013 come autrice di brani originali, e infatti in Non odiare ho co-firmato il brano originale Miles away; il terzo è 50 (o dos ballenas se encuentran en la playa), un film messicano di Jorge Cuchì, a cui ho lavorato come assistente del compositore che ha firmato la colonna sonora, Giorgio Giampà.
Come è stato lavorare per Fuoco Sacro?
Fuoco Sacro è stata per me un’esperienza inedita per molti aspetti, in più è stato particolare vederlo ad un festival come quello di Venezia: portare un progetto per un certo verso così “istituzionale” poteva essere rischioso, ma è stato accolto davvero molto bene.
In Italia è raro trovare una musicista che include nella sua attività cinema e musica così sistematicamente. Come hai iniziato a far colonne sonore per il cinema, quali sono state le tue influenze musicali e cinematografiche?
Io ho cominciato a far musica da piccola, è sempre stata una cosa che ho desiderato portare avanti come una professione. Inizialmente mi concentravo principalmente sul mio progetto solista come cantautrice. Dopo gli studi in conservatorio mi sono capitate varie occasioni per lavorare con la musica per l’immagine. Ho iniziato a collaborare intorno al 2013 con Pivio e Aldo De Scalzi in occasione del mio primissimo disco solista nel loro studio di Genova. Pivio e Aldo lo stavano producendo e alla fine i brani sono stati inseriti in moltissime delle loro colonne sonore o riarrangiati per determinati film. Dal 2018, verso la fine dei miei studi, mi sono capitate varie occasioni per lavorare con la musica per l’immagine più seriamente. Non ti nego che in casa fin da piccola c’è sempre stata una passione enorme nei confronti del cinema. Io e mio fratello eravamo grandi fan di Star Wars… Ho sempre prestato molta attenzione al lavoro musicale nel cinema e quando ho iniziato a lavorare per Pivio e Aldo qualcosa ha squillato nella testa. In realtà non ho mai pensato di buttarmi in questo settore in maniera consapevole; sono stati alcuni eventi che mi hanno fatto rendere conto di cosa stavo facendo e non so tuttora se è un bene o un male. Non riesco in verità a distinguere nemmeno tanto la figura di autrice e quella di compositrice di colonne sonore.
La tua volontà sembra essere quella di non voler separare, anche formalmente, il tuo progetto solista da quello di compositrice di colonne sonore. Molti artisti, per esempio Blood Orange o Mica Levi, al contrario distinguono nettamente due percorsi musicali differenti. Perché hai deciso di tenere tutto insieme?
Alla fine dello scorso anno mi sono trovata ad avere più progetti all’attivo nel settore cinematografico rispetto a quelli da solista. Ho vissuto una sorta di sfasamento professionale. In quel momento ho pensato di separare i due profili. Poi mi sono chiesta cosa distinguesse effettivamente i due ruoli e non sono riuscita a darmi una risposta. Per questo forse ho messo tutto sotto lo stesso nome. Noto sempre più spesso che nella mia scrittura c’è sempre più contaminazione tra un mondo e l’altro, in uno ci sono le parole, una linea melodica solista e nell’altro no. In realtà anche questa distinzione è poco vera. Nel film per cui sto lavorando ora mi è stato chiesto di inserire molti elementi vocali, come campionature di voci. Mi sembrava un po’ riduttivo rispetto a quello che faccio trovare una linea di separazione netta tra i due aspetti del mio profilo. Credo sia interessante per un ascoltatore scoprire che un autore ha diverse sfaccettature. Penso a Trent Reznor o Thom Yorke. Ad oggi non mi spaventa più così tanto quest’aspetto. A volte è un peccato quando vengono separati due profili così nettamente, proprio perché il pubblico si può perdere qualche chicca interessante.

La già menzionata Mica Levi ha firmato, come credo tu sappia, la colonna sonora di Under the skin di Jonathan Glazer. A riguardo ha affermato che realizzarla fu un lavoro quasi “mentale”. Quanto ti ritrovi in questa affermazione quando scrivi le musiche per un film? Che metodo usi per avvicinarti all’immagine cinematografica?
Mica Levi ha sicuramente portato qualcosa di estremamente nuovo nella scrittura della musica per film, in particolare in Under the skin. È un’autrice che amo e seguo. Nella sua scrittura c’è un’umanità incredibile e un tentativo di immersione totale dentro l’opera. Questo vale anche per Jackie di Pablo Larraín, in cui vi è una simbiosi stupefacente tra immagine e musica; nonostante sia una colonna sonora più tradizionale trova sempre quel quid estremamente personale. Lo sforzo maggiore, e più efficace, credo sia lasciare la mente aperta e fare un lavoro, appunto, “mentale”. Talvolta capita di buttarsi in un approccio alla scrittura che viaggia per reference; talvolta capita di provare una strada più didascalica, per esempio nei film di genere dove ci sono degli schemi classici da seguire. Credo che oggi valga la pena provare ad entrare nella narrazione, nella drammaturgia di un film e capire quale vestito dare all’opera, fare uno sforzo di proiezione all’interno degli eventi ed anche verso i sentimenti dello spettatore che guarda il film. Penso anche che il compositore oggi abbia dei mezzi tecnologici inediti che giocano a suo favore, quindi c’è una sorta di dovere morale nel superare certi limiti intellettuali di linguaggio. Mica Levi, molto spontaneamente, ha fatto anche questo. A questo proposito un termine che trovo molto scorretto per un compositore è quello di “musica applicata”. Il lavoro del compositore non è applicare musica all’immagine, bensì di entrarci dentro, compiere un lavoro organico.
Il lavoro del compositore dunque ha un doppio movimento: verso l’immagine e verso lo spettatore?
Direi assolutamente di sì. Una volta partecipai ad un incontro sulla musica da film organizzata da Pivio. Avevano lavorato al film Maradona – La mano de Dios e in una scena molto allegra avevano messo un brano che calzava benissimo con l’immagine; poi fecero vedere la stessa sequenza con il loro brano, dove la musica sottolineava un aspetto malinconico che in quella scena apparentemente non c’era. La parte del nostro lavoro sta proprio qui: sottolineare aspetti di sequenze e scene nel modo migliore, in modo tale da far emergere elementi emotivi che con il solo montaggio non sarebbero emersi.
In un certo senso anche la musica utilizza il montaggio, intendo la giustapposizione di suoni, la stratificazione di linee melodiche e vocali. Quando lavori di fianco ad un film, quanto emerge questo lato di per sé “cinematografico” della musica elettronica?
Io mi appoggio quasi esclusivamente al montaggio. Fino ad ora mi è quasi sempre capitato di lavorare su scena. Ho dovuto adattare la mia griglia temporale di eventi sui cut del montaggio e l’ho trovato estremamente divertente. Ho discusso a lungo con molti colleghi su quanto un compositore debba adattarsi al montaggio o viceversa, quanto il montaggio debba essere riaperto e rivisto in relazione alla musica. Credo che il dialogo tra dipartimenti, cioè tra addetti al montaggio video e addetti al montaggio sonoro, debba essere aperto, scontato quasi. Il compositore fa parte di questo ecosistema.

Immagino che nello scrivere un progetto da solista e comporre musica per film ci siano due spazi di libertà diversi dentro cui muoversi, a volte si allargano e a volte si restringono. È vero?
L’approccio ai due lati della mia figura ovviamente è diverso. Mi è capitato più volte di mettermi dei paletti lavorando da sola per una sorta di lotta interiore. Nel mio progetto solista mi prendo molto tempo per riflettere e per darmi spiegazioni sulle esigenze di scrittura, e allo stesso tempo ho più spazio di manovra perché non ho nessuna commissione esterna. Nel lavorare come compositrice di colonne sonore a volte mi facilita sapere di non avere carta bianca: lavoro su un progetto che necessita di determinate scelte artistiche e ricevo delle reference per sapere che lingua stiamo parlando io e il regista. Per assurdo è come avere un foglio completamente bianco ed uno con dei contorni da seguire. Questa cosa a volte può essere d’aiuto perché incentiva la tua creatività. Inoltre per il cinema devi lavorare per un progetto che ha un fine, hai delle deadline. Non è un caso che il mio progetto solista ha molte meno pubblicazioni rispetto a quelle per la cinematografia.
Quanto cambia la produzione di una colonna sonora per una serie ed una per un film?
Sono due approcci molto diversi. Penso sia più impegnativo scrivere per una serie tv. Sul prodotto seriale si possono usare alcuni stratagemmi che oltre ad essere un aiuto sono strumenti stilistici utili per il fine di una serie: per esempio ho dei temi che posso riutilizzare più volte all’interno della narrazione magari in maniera diversa, facendoli suonare in modi differenti, perché lo spettatore deve essere trasportato nella narrazione in maniera organica e coerente. Nel film questi stratagemmi si presentano in misura minore.
Tra l’altro il cinema e le serie tv ormai si possono vedere su qualsiasi device. Un musicista come si relaziona a questa differenziazione di fruizione in atto negli ultimi anni?
È un dato di fatto che l’avvento di queste piattaforme di streaming e di fruizione di opere cinematografiche e serie tv ha cambiato il linguaggio con il quale si scrivono le opere stesse e anche l’attenzione con cui noi guardiamo determinati prodotti. L’esperienza audiovisiva più completa rimane quella della sala. Mi manca come spettatrice la sala cinematografica, come i concerti live. L’esperienza diretta rimane molto importante.
L’elettronica è un genere facilmente plasmabile. Come adatti questa plasmabilità al cinema?
Quel che dà l’elettronica, come mezzo e come linguaggio, è la plasmabilità degli eventi sonori. Questa sua caratteristica mi ha sempre interessato molto, sia nel mondo digitale sia in quello analogico. Nel mondo digitale la parte affascinante è il numero infinito di possibilità. Bisogna solo capire la strada più adatta a ciascuno di noi. Questo aspetto è una comunante sia per il mio progetto solista sia per il progetto di score composer. È una sorta di salvagente, perché mi rendo conto che dopo aver esplorato il pianoforte, la chitarra acustica, la batteria o il basso ho esaurito gli strumenti. Idealmente lo iniziarono a fare compositori come Arnold Schönberg, che fu uno dei primi a manifestare la sua voglia di oltrepassare certi confini; da lì i musicisti hanno sempre manifestato interesse nel trovare nuovi modi di creare timbri e texture sonore. Non saprei dirti in maniera specifica che tipo di elettronica faccio, perché è un mix di influenze che arrivano dal mio background musicale piuttosto variegato: dalla musica popolare alla musica tribale, dalla musica balcanica al pop e al punk.
Credi che questa mutevolezza del genere possa aprire anche nuovi scenari, instaurare nuovi rapporti tra la musica e l’immagine nel cinema?
Questa rivoluzione in qualche modo c’è già stata. Soprattutto nell’ultimo decennio la parte più rivoluzionaria delle produzioni anche più mainstream è stato l’arrivo del famigerato sound design, che ancora oggi viene visto come il fratello “cattivo” della composizione. Oggi il confine sound design e colonna sonora è minimo. Io mi chiedo: perché fare distinzione? È una rivoluzione che è entrata a far parte del nostro lavoro. Nuovi scenari potrebbero aprirsi nel modo di fruire cinema, nel senso che ad oggi si fruisce con un ascolto in 5.1, a casa in stereofonia. Mi domando se in un futuro il cinema si fruirà in un modo nuovo, con un sistema acustico nuovo. Sarebbe divertente proiettarsi su questa cosa.
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