
Nicolas Cage – Tre film per un grande attore
Il più odiato e il più amato. Nicolas Kim Coppola, al secolo Nicolas Cage, è un attore polarizzante nella sua essenza, incapace di suscitare una reazione neutrale nello spettatore medio. L’andamento stesso della sua carriera sembra un’altalena che va dal cinema d’autore a film di serie Z, dai cachet più alti di Hollywood al peggiore direct-to-video. Il tutto condito da una vita privata fatta di stravaganze (leggere per credere) e da un certo alone di mistero intorno alla sua figura che contribuiscono ad alimentarne il mito, arrivando a toccare punte di adorazione simil-religiosa (del resto, il subreddit a lui dedicato si chiama “One true god”). La domanda che mi sono posto spesso nel corso degli anni è se dietro a questa mitologia umoristica ci sia, effettivamente, un talento, un misto di bravura tecnica e carisma che gli permettono di incarnare il modello del grande attore. Non sono il solo a essersi posto questa domanda, come dimostra Abed nel secondo episodio della quinta stagione di Community.
Scherzi a parte basterebbe, a mio parere, citare i nomi dei registi con cui ha lavorato per convincermi del valore di Cage: i fratelli Coen, John Woo, Brian De Palma, Werner Herzog, Ridley Scott, Paul Schrader, Oliver Stone e, nell’anno che verrà, perfino Sion Sono. Ma i detrattori potrebbero ugualmente presentarmi una lista di film atroci, di ruoli terribili e stereotipati, a fare da contraltare alla mia pomposa rassegna di nomi. Per questo, ritengo sia necessario scavare un po’ più a fondo nelle interpretazioni di Cage per andare al di là di qualsiasi pregiudizio. Da queste tre brevi analisi, che toccano tre decenni diversi, emerge un quadro inaspettatamente complesso dell’approccio di Cage alla recitazione, vista la varietà di ruoli e l’ampiezza dello spettro emotivo con cui è capace di confrontarsi l’attore statunitense.
Cuore selvaggio (Wild at Heart) – David Lynch, 1990

Si può dire che tutto ebbe inizio qui. Cuore selvaggio non è il film d’esordio di Cage, che aveva già lavorato con lo zio Francis Ford Coppola in qualche piccola parte e con i Coen nel dimenticabile Arizona Junior (Raising Arizona, 1987); ma è in qualche modo il film della consacrazione, per diverse ragioni. In primis, perché dietro la macchina da presa c’è David Lynch, capace come pochi di creare personaggi degni di entrare nel moderno immaginario collettivo cinematografico; e poi perché il film vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes. L’immagine che meglio esemplifica l’opera è quella riproposta più volte nel corso della storia, quella di un fuoco che arde, sprigionando energia tutt’intorno ma rischiando anche di spegnersi da un momento all’altro.
Sailor Ripley, il protagonista interpretato da Cage, è focoso per definizione: la sua rabbia divampa sin dalla violentissima scena iniziale, la sua sessualità è prorompente, le sue movenze esagerate sino al parossismo. Incarna lo stereotipo del maschio (macho) bianco americano anni ’50 e contemporaneamente lo distorce e lo inquina: indossa una giacca di pelle, sì, ma di serpente, e canta Elvis in playback con una band metal a supporto. Sailor è sudato, alcolico, bambinesco, romantico e sporco; tira calci all’aria nel tentativo di respirare una libertà che non gli appartiene, e si affligge nel constatare che al mondo anche il male gioca un ruolo fondamentale, oltre all’amore. Cage riesce ad articolare tutti questi aspetti grazie ad un’interpretazione totale, che mette al centro il corpo coadiuvato da una mimica esageratamente espressiva che diventerà il suo marchio di fabbrica, ma che qui è ancora in una fase embrionale ed è sufficientemente contenuta. Cage/Sailor incarna una figura antieroica atipica per il cinema di Lynch, ed infatti si tratta di un eroismo parodico, contaminato e anti-climatico, capace comunque di innestarsi perfettamente sulla trama favolesca di Cuore selvaggio.
Il ladro di orchidee (Adaptation) – Spike Jonze, 2002

Tra il 1990 e il 2002 passa tanta acqua sotto i ponti della carriera di Cage, che in quegli anni si afferma come una delle star dell’action e del thriller a livello globale, basti pensare a Face/Off (1997) di John Woo, e si concede anche un ruolo in uno dei film più dimenticati di Martin Scorsese, Al di là della vita (Bringing Out the Dead, 1999). Tuttavia, ritengo che una delle interpretazioni più preziose non solo della sua carriera ma degli anni 2000 in generale sia contenuta ne Il ladro di orchidee di Spike Jonze. Le sceneggiature di Charlie Kaufman si trovano spesso al confine tra la messa in scena cinematografica e la pièce teatrale; anche per questa ragione, necessitano di un supporto attoriale di primo livello, come per il suo Synechdoche, New York (2008) interpretato da Philip Seymour Hoffman. Il ladro di orchidee è un film autobiografico e meta-cinematografico, che contiene abbondanti elementi di auto-referenzialità che rischierebbero di appesantire la narrazione se non gestiti al meglio. L’opera è retta totalmente dalla scrittura, che si traduce nelle interpretazioni degli attori, nelle sfumature di senso che il corpo e la voce conferiscono alla parola scritta. Per questa ragione, allo spettatore è richiesto un lavoro di proiezione e identificazione col protagonista, lo stesso identico lavoro che compie Cage per diventare esso stesso un Kaufman credibile.
Primo nodo di complessità: Cage deve gestire una doppia interpretazione, poiché la personalità di Kaufman nel film è divisa e plasticamente rappresentata da due gemelli, uguali di aspetto e opposti di carattere. Un contrasto che deve risultare evidente e credibile al contempo: da un lato vediamo il Cage timido, ansioso, nevrotico, rinchiuso su sé stesso, dall’altro quello sciolto, spiritoso e sicuro di sé. Secondo nodo di complessità: il fulcro principale del film è il rapporto del protagonista con sé stesso, i suoi comportamenti, la sua opera, più che con altre persone. C’è un tumulto introspettivo, tipicamente incorporeo, che deve essere letteralmente “messo in moto” dal personaggio in carne e ossa: la sua andatura, le sue compulsioni, il tono della sua voce che elabora il flusso di coscienza dei suoi pensieri. Insomma, siamo alle prese con un’interpretazione rivolta all’obiettivo più difficile, la materializzazione di ciò che è invisibile, ai limiti del rappresentabile: e in questo film Cage lo raggiunge a pieno, arrivando a toccare corde emotive tipicamente nascoste.
Mandy – Panos Cosmatos, 2018

Si può dire che la seconda metà degli anni duemila veda l’inizio del declino artistico di Cage, il quale si ritrova invischiato in produzioni di basso livello a cui aggiunge interpretazioni di ancor più basso valore, che lo rendono una vera e propria macchietta anche sul web. Tuttavia, anche qui si possono trovare delle eccezioni degne di nota, dalla versione de Il cattivo tenente di Herzog (Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans, 2009) a Cane mangia cane di Schrader (Dog Eat Dog, 2016). La sua interpretazione in Mandy si inquadra perfettamente in questa cornice temporale, andando in qualche modo a redimere la visione di Cage come attore scadente, ai limiti dell’amatoriale. Si tratta di un ribaltamento della prospettiva attuato all’interno della stessa, dal momento che il film di Cosmatos si presenta con tutti i crismi di un revenge movie di serie B.
Il protagonista, Red Miller, è il personaggio quintessenziale di Cage, perché nelle due metà di cui si compone il film ci mostra esattamente i due lati artistici dell’attore. Inizialmente, ci troviamo dinnanzi a un personaggio tranquillo e introspettivo, ai limiti della mono-espressività, domato al pari di una tigre in gabbia (una metafora che ritorna nel corso del film), e che necessità di un evento scatenante per essere liberato. Quando si manifesta l’altra faccia di Red, abbiamo la possibilità di assistere al repertorio completo di Cage, elevato all’ennesima potenza: espressioni grottesche e sopra le righe, urla disumane, gesti pieni di comicità involontaria, occhi sgranati all’inverosimile. Tutti questi elementi vengono ammantati di un’aura quasi religiosa, tanto da risultare funzionali e per nulla fuori luogo nel contesto del film. L’esagerazione e l’assurdità si mischiano a un contenuto la cui cifra estetica è elevata, creando un contrasto solo apparente, perché in fondo tutto arriva a sembrarci credibile se seguiamo la logica perversa dell’opera. Questo è Nicolas Cage, questo sono io, perennemente over-the-top, prendere o lasciare. Non c’è nessun attore che avrebbe potuto interpretare questa parte meglio di Nicolas Cage, un paradosso vivente capace di camminare sul filo sottile che separa lucidità e follia. In questo senso, è emblematica una frase pronunciata dallo stesso Red, ma che vedrei benissimo in bocca a Nicolas Cage nella vita reale:
«The psychotic drowns where the mystic swims. You are drowning, I am swimming
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[…] il Mandy di Panos Cosmatos, Stanley ne prende in prestito delirio lisergico e protagonista (Nicolas Cage, overacting compreso) per andare oltre. Fino a superare quel trionfo estetico fine a se stesso per […]
[…] Nella maniera personalissima in cui l’autore scrive emerge innanzitutto la labirintica intersezione delle vicende, che si schiudono fantasticamente come delle matrioske impazzite: Confessions of a Dangerous Mind (George Clooney, 2002) e Adaptation. (Spike Jonze, 2002) sono i due esempi più emblematici di questa incessante forza narrativa. Nel caso di Adaptation. la narrazione hyperlink alimenta, oltre che il tema del doppio, anche una riflessione sul ruolo dello sceneggiatore nella scena americana. Durante la visione diventiamo partecipanti passivi della creazione stessa del film, spettatori privilegiati di una vicenda in corso d’opera e in continua evoluzione grazie alla mano di Kaufman/Cage (di cui ricordiamo la magistrale interpretazione in Nicolas Cage – Tre film per un grande attore). […]