
Ma Rainey’S Black Bottom – La tradizione orale sopra lo strumento cinema
È inutile girarci troppo intorno. Anche se Ma Rainey’s Black Bottom porta nel titolo il nome della ‘Madre del Blues’ nel pieno della sua attività artistica nella Chicago degli anni ’20 (la “terra promessa”), il film diretto da George C. Wolfe è legato a doppia mandata con il nome di Chadwick Boseman. Di fatto questa è l’ultima performance dell’attore venuto a mancare prematuramente negli scorsi mesi, durante la fase di post-produzione della pellicola distribuita in esclusiva su Netflix.
Un vero e proprio lascito affidato al personaggio del tormentato trombettista Levee, anima focosa e magmatica in quello scantinato dello studio di registrazione dove la band prova, chiacchiera, si scontra nell’attesa dell’arrivo di Ma, della star. Uno scantinato che è luogo della memoria, spazio a tratti metafisico e a tratti estremamente fisico, fucina di una tradizione orale di cui quel Levee si fa esponente paradigmatico, cantastorie di un intero popolo.

Ma Rainey’s Black Bottom è infatti un film costruito nella sua totalità sulla forza del verbo, forse anche troppo. Un adattamento dell’omonima opera teatrale di August Wilson e appartenente a una serie dalla quale era già stato trasposto il Fences di Denzel Washington, qui tra i produttori. E proprio al teatro, o meglio alla carta scritta fatta appunto di parole, di schermaglie e imprecazioni, il film resta troppo legato, senza che la regia di Wolfe sia in grado di apportare mai realmente qualcosa allo script di Ruben Santiago-Hudson. Anzi, si sfilaccia anche di più sull’intervento ballerino di un montaggio impreciso e grossolano.
Un’operazione quella di Ma Rainey’s Black Bottom che ricorda molto da vicino quanto fatto anche da Regina King con il suo esordio alla regia One Night in Miami (passato a Venezia77). Anche lì il materiale di partenza è quello teatrale, firmato Kemp Powers, anche lì lo spazio dell’esistere è quello delimitato da quattro mura e incorniciato sotto l’egida di un evento iconico o leggendario. E poi la realtà è quella che sprigiona dalle parole, dal fiume della riflessione che è memoria ancestrale e eco del passato che riverbera, ancora, nel presente.

Insomma, il significante filmico qui si fa cosa da poco se non addirittura nullificato in favore delle esclusive prestazioni attoriali, respingenti e spigolose, pronte a scalciare e a lanciare sferzate in una centrifuga tanto frenetica da lasciare a distanza. Proprio la Ma di un’irriconoscibile (e bravissima) Viola Davis nasconde sotto il trucco pesante e quasi funereo un vissuto di intemperie sociali. Eppure è quasi spostata lateralmente, sottratta a se stessa pure nel momento in cui deve lasciar sprigionare il suo estro davanti al microfono, in un atto di negazione della propria persona che è coperta di spine e per noi inconoscibile.
Il palco (quello dello scantinato) è invece tutto di Levee, il reale polo aggregatore che non si sottrae dal gridare, quasi sputare via, tutta la sua sofferenza verso chi ascolta (ancora noi). E la prova di Boseman è la più riuscita della sua purtroppo breve carriera, qui nel culmine di un percorso che l’ha condotto, anche con la triste nobilitazione della scomparsa, a ergerlo come simbolo della black ‘pop’ culture nell’epoca del Black Lives Matter.

Sicuramente fa effetto vedere il suo Levee così emaciato, corpo sciupato e fascio di nervi che chi osserva sa bene essere il risultato dell’azione corrosiva della malattia, che lo conduce così agli antipodi di quel T’challa possente, muscoloso, vigore incarnato di un popolo che in Black Panther aveva riconosciuto un emblema epocale. Anche il trombettista si fa anima mobile dopotutto, non si lascia afferrare e spinge via con irruenza il suo pubblico l’istante successivo l’averlo fatto avvicinare e ammutolito con i suoi racconti, misura complessiva di un Ma Rainey’s Black Bottom che fa del gioco di molle, della pentola a pressione il suo portato principale.
Il film di Wolfe sfrutta al minimo le potenzialità del mezzo e la cosa è evidente. Quando tenta di farlo pare però non riuscire nell’intento, così ripiega sul lavoro degli interpreti che in questo caso trascende inevitabilmente la dimensione cinematografica e acquista, fuori da essa, un valore di più ampio respiro che può far dire la sua anche in ottica premi.
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