
Orlando d’Amore Furioso – Rompere il chiasmo della follia
«Se questa storia ha senso è perché io esisto»
Ippogrifo
È ormai un rapporto che si conferma vivo e felice quello tra Teatro della Tosse e Villa Duchessa di Galliera di Genova Voltri, luogo incantevole capace di farsi materia viva di rappresentazioni itineranti che di anno in anno cercano di scavare nel tessuto stesso di testi e immaginari, con percorsi narrativi capaci di condurre gli spettatori tra pagine di epica e letteratura mostrandone risvolti inattesi, attivandone cortocircuiti e spezzando facili abitudini interpretative, restituendo corpo e spazio a parole, personaggi, ruoli e vicende che diventano finestre su angoli sensibili del nostro tessuto culturale: con Orlando d’Amore Furioso non solo si conferma la potenza di tutto questo, ma i risvolti dello spettacolo costringono a ripensare il rapporto tra temi ed elementi che compongono uno dei testi chiave della nostra letteratura, l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.

Lungo le sette tappe di cui è punteggiato il magnifico parco di Villa Duchessa di Galliera, il racconto di Orlando si frantuma e si dissemina attraverso alcuni dei suoi personaggi principali, protagonisti di incontri evocativi che animano le vicende del testo epico su più livelli: non solo i combattimenti e le peripezie rivivono attraverso le parole e le sempre più sorprendenti scenografie, ma la stessa origine del poema viene fatta vibrare nelle sue corde più problematiche, costringendo a ripensare l’attualità di questioni anestetizzate dallo stile e dal genere letterario, dando materialmente spazio a ciò che rende vivo l’agire teatrale, ovvero il contrasto inconciliabile, la compresenza dell’opposto, la rottura definitiva di quel chiasmo originario capace così di ribaltare tutto il testo.

Emanuele Conte decide di aprire infatti il suo Orlando con un incipit sull’incipit: è un cavaliere in armatura (Marco Rivolta) a dispiegare i primi versi, a districare quel nodo iniziale che sembra costringere a una lettura intrecciata di tutto il poema: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori», parole in cui siamo abituati a vedere un chiasmo tematico (le donne con gli amori, i cavalieri con le armi), recuperano qui una posizione lineare, andando ad indicare una più vivida chiave per affrontare le vicende di Orlando, dove le donne vestono le armi – Bradamante (Antonella Loliva), circondata da un vero ed impressionante campo di battaglia – e i cavalieri si rifugiano in “amori” con cui dar senso al loro vivere di guerra – Orlando (Raffaele Barca), certamente, ma anche Rodomonte (Matteo Palazzo), in un parallelismo dalla forza decisiva.

L’Orlando Furioso diventa, nello spettacolo della Tosse, il manifesto impossibile di riflessi inconciliabili, con due personaggi su tutti ad incarnare le tensioni estreme che sottendono l’intero poema epico: l’Ippogrifo (Alessandro Bergallo), capace di volare fin sulla Luna, è destinato ad una solitudine ineludibile, figlio di un amore improvviso, inatteso e inafferrabile se non in lui, nel suo nome e nella sua chimerica esistenza, tale da renderlo immagine stessa dell’intero racconto; e, in modo ancor più radicale, Angelica (Alma Poli), principessa d’Oriente dal nome cristiano che sposa il musulmano Medoro e che, al contempo, è immagine e vittima del desiderio misogino del destinatario dell’opera, quell’Ippolito d’Este cui Ariosto dedica il poema e che infesta col suo spettro gli angoli più oscuri del racconto.

In piena continuità con la tradizione shakespeariana esplorata dalla produzione precedente – che torna in scena nel corso dell’estate -, Conte affida all’ironia dei personaggi comici quel necessario ponte relazionale con gli spettatori, mettendo a nudo con la risata il cuore problematico del testo: se l’Ippogrifo mette in rima il gioco degli intrecci di opposti inconciliabili, sono l’Amorino (Pietro Fabbri) e il Puparo (Graziano Sirressi) a rimarcare il punto autentico che rende il testo di Orlando non un racconto sulla follia per amore, bensì l’immagine vivida delle follie causate dalla guerra; quella che si abita nel magnifico bosco che circonda la Villa Duchessa è infatti la sensazione sotterranea della fuga da una guerra latente, con orrori che lasciano segni indelebili e si annidano nel profondo di ogni scena e di ogni racconto.

C’è tutta l’iconografia che ha circondato l’universo dell’Ariosto nelle scene che si stagliano tra le grotte, le vie e gli alberi della Villa Duchessa di Galliera, in un dialogo vivissimo tra la tradizione cavalleresca e l’estetica del Teatro della Tosse, attraverso costumi – a cura di Danièle Sulewic – dall’accesissimo impatto narrativo che fanno di Orlando, Angelica e tutti gli altri non solo ruoli o personaggi, ma figure vive del loro mondo, capaci di restituire racconti con il proprio semplice abitare gli spazi in cui agiscono, donando ad ogni spettatore – anche a chi non conoscesse le vicende orlandiane – un efficace e colorato affresco dell’intricato mosaico narrativo che rende il poema un pilastro denso e problematico della letteratura.

Orlando d’Amore Furioso resta in scena nel Parco di Villa Duchessa di Galliera a Genova Voltri fino al 29 luglio e anche quest’anno si conferma la possibilità di vivere appieno gli spazi che ospitano la produzione del Teatro della Tosse, con il giardino della Villa allestito per godersi un’apericena in attesa di iniziare il proprio percorso dentro il bosco. La speranza è che questo rapporto tra la Tosse e Villa Duchessa si mantenga così luminoso, donando di anno in anno sempre più vita ad un luogo di Genova che chiede a gran voce di essere abitato.

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