
Gramsci a Ustica, il documento che manca – Gramsci 44
Questo articolo è uscito in forma estesa sui «Quaderni Borromaici» (Interlinea), n. 4, nel 2017. Lo ripropongo perché, in forma di solidarietà digitale, la RAM Film ha reso disponibile il mediometraggio Gramsci 44 su Vimeo (clicca qui) fino, per adesso, al 27 aprile.
Premessa [1]
Fra l’arresto inaspettato e il periodo di detenzione, conclusosi solo con la morte, Antonio Gramsci (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma 27 aprile 1937) visse quarantaquattro giorni di confino a Ustica, piccola isola in provincia di Palermo. In violazione dell’immunità parlamentare, Gramsci venne infatti arrestato l’otto novembre 1926 dal regime fascista, il quale a seguito dell’attentato Zamboni contro Benito Mussolini (Bologna, 31 ottobre 1926) volle stracciare gli ultimi residui di democrazia espellendo dal parlamento gli oppositori. Emiliano Barbucci dirige Gramsci 44 (2015, 66’), con sceneggiatura di Emanuele Milasi, film che focalizza la propria attenzione sul periodo di passaggio fra la politica e il carcere. La pellicola tenta di illuminare il periodo di confino, oscuro agli storici e alla memoria, che certamente influenzò l’intellettuale sardo, che ebbe da frequentare uomini di ogni fede politica, nonché il “nemico” interno al medesimo partito Amedeo Bordiga, con cui ebbe da organizzare «tutta una serie di corsi», per i confinati e gli indigeni dell’isola.
Il 10 marzo 2016 il film venne proiettato nella Sala Bianca dell’Almo Collegio Borromeo di Pavia: intervenne Gianni Francioni con una lectio sul Gramsci dei Quaderni, e sulla logica applicata da editore critico al fine di datarne le parti, ordinarne i tasselli. Per i Quaderni è preclusa difatti una lettura lineare, che renda conto della contiguità delle parole, delle unità significanti e, in successione, dei periodi. A riguardo parlerei invece di lettura verticale, quella altrimenti chiamata paradigmatica (non antitetica, ma perpendicolare alla lettura sintagmatica prima menzionata).[2]
Gramsci 44: il ricordo del confino al fine di scongiurarne la deformazione, superarne l’allontanamento
«Ma com’è che uno… di quello che so io, di quello che ho visto io… ancora sugnu ‘cca? Che vita brutta! che vita di cani! che vita laria! ch’ ffriddu ch’ fami ch’mmiseria… tutto tutto tutto tutto».[3]
Parla un uomo, gli occhi sciacquati fissi in macchina. Gramsci ha già parlato, e già sull’isola, con le manette ai polsi, formando una catena con altri tre uomini.
Subito, viene scongiurata la prima deformazione: il film agirà senza compromessi, non è un tentativo di mimesi del reale, ma la concretizzazione di un desiderio, quello di raccontare, un desiderio antico, il passato che significa il presente: capire il passato per il presente, sapere del presente per capire il passato. Si tratta di far prevenzione, annunciare che il film è altro, non riferimento costante alla realtà, ma ricorrenza alla realtà. Si intravede nel buio l’acciaio della nave, le automobili che vivono la loro vita adesso. L’esistenza di Gramsci è difatti irripetibile, se non colta parzialmente nel suo pensiero, nelle fotografie delle sue pagine manoscritte ed edite, quelle che, per i risultati e i preannunci, possono ristabilirne un momento la diacronia[4]. È una pellicola che gioca sul linguaggio documentario, insomma, ma ai fini d’una narrazione di pensiero, non d’oggetto. Parla in questi termini Emanuele Milasi su Peppino Mazzotta[5] nel ruolo di Antonio Gramsci:
«Non volevamo un attore che fosse fisicamente uguale a Gramsci, volevamo un attore che lo fosse spiritualmente, Creare una caricatura significa far concentrare lo spettatore sull’estetica del personaggio. Una cosa che noi volevamo evitare. D’altronde il nostro Gramsci è un pensiero che si muove nella narrazione fra passato e presente, e i pensieri non hanno corpo».
Sono alquanto eloquenti, mi pare a questo punto poterlo dire, gli inserti documentari, frequentissimi, del mare di Ustica, delle spiagge rocciose, dell’asprezza della sua vegetazione, di quel teatro che per sua dimensione riduceva la libertà dei confinati, parla ancora l’anziano della prima citazione:
«Il discorso era che quella gente per venire a Ustica [sospira] non è che erano tanti genti… gente che ci davano fastidio a lui, a Mussolini, perché c’era la dittatura fascista… questa gente poveraccia… solo che qua perché i mannavano? Pikkì nu putivanu scappari i nuddu latu. S’aivanu a jettari a mari».[6]
L’uso del montaggio parallelo[7] che alimenta uno scontro ma similmente un accordo tra passato e presente, rende possibile quella dialettica certamente significata dalla regia. Due storie che corrono in parallelo, quella caratterizzata di Gramsci e quella della caratterizzante Ustica che eredita Gramsci:
[Milasi] «Anche se Gramsci ha poco lasciato dal punto di vista dei documenti sul suo confino, non è facile dire lo stesso nei riguardi di Ustica. Se usi Ustica come specchio, ecco che improvvisamente la forza di quello che Gramsci ha lasciato lì diventa dirompente. Basta sentire le interviste e analizzare che tipo di linguaggio usano le persone semplici, o la profondità del loro pensiero. E’ sicuramente un’eredità che Gramsci e i confinati gli hanno lasciato: ad Ustica le persone, anche le meno acculturate, hanno un pensiero critico. Eccolo Gramsci, è in ogni gesto, in ogni parola degli usticesi. Quindi in realtà non è vero che ci spostiamo da Gramsci ad Ustica, cambiamo solo punto di vista».
Non mutamento d’interesse, ma esigenza di studio: laddove gli scritti, i documenti, risultano insufficienti a descrivere o definire il periodo di confino, il documentario comunica le proprie ipotesi storiche con il tramite delle testimonianze orali.
Da sottolineare, a proposito, che non tutto il film può esser legittimato metodologicamente, nel senso che può, e non avrebbe potuto fare diversamente, giungere a conclusioni errate, certamente poetiche, ma non esaustive. Questa intrusione registica nei ricordi denuncia la mancanza, da parte dell’Accademia, di uno studio approfondito sul confino, tradisce il bisogno di scavare a fondo alla ricerca del pensiero gramsciano, la traccia che già l’intellettuale aveva avvertito potesse permanere, la traccia diventata territorio usticese.
Gramsci a Ustica, la mancanza dei documenti e delle informazioni necessarie
Gramsci rimase a Ustica per quarantaquattro giorni, significativi perché hanno in definitiva indirizzato l’uomo sulla strada del non ritorno: mai più avrebbe potuto vivere in libertà, quella stessa condizione che ancora ravvisa nell’isola. Nelle lettere scrive infatti di sentirsi bene, di poter passeggiare fino al tramonto, scrive che forse la sua permanenza avrebbe talmente giovato da scacciare via i mali dal suo corpo, quelli che invece lo accompagneranno per tutta la permanenza in carcere. Ma i numerosi studi e i prodotti di questi non comunicano molte informazioni circa il confino. Motivazioni complementari potrebbero essere la mancanza di documenti a riguardo e il giudizio di subordinazione rispetto a eventi o periodi più significativi. Diamo uno rapida lettura alla Vita di Antonio Gramsci, di Giuseppe Fiori:
Dopo l’arresto la prima destinazione fu al confino di Ustica, un’isoletta di otto chilometri quadrati con 1600 abitanti, cinque-seicento dei quali coatti per delitti comuni. Gramsci abitava con altri cinque: l’ex deputato riformista Giuseppe Sbaraglini, di Perugia, l’ex deputato massimalista Paolo Conca, di Verona, due compagni abruzzesi e il suo più tenace avversario nella lotta delle correnti dentro il partito, Amedeo Bordiga. C’era fra tutti, malgrado la diversità delle idee e il ricordo ancora fresco di polemiche acri, la massima intesa. Dovevano arrangiarsi, ed anche Gramsci accettava con spirito d’adattamento la sua parte d’impicci: «io partecipo a una mensa comune e proprio oggi mi spetta fare da cameriere e da sguattero: non so ancora se dovrò sbucciare le patate, preparare le lenticchie o pulire l’insalata prima di servire a tavola. Il mio debutto è atteso con molta curiosità: parecchi amici volevano sostituirmi nel servizio, ma io sono stato incrollabile nel volere adempiere la mia parte». Aveva abbastanza da leggere. S’era rivolto ad un amico degli anni torinesi, Piero Sraffa, che insegnava economia politica all’Università di Cagliari; e l’amico, figlio di un professore della Bocconi a Milano, gli aveva aperto un conto corrente illimitato in una libreria di Milano, la Sperling e Kupfer. Questi libri servivano anche per la scuola di cultura generale organizzata tra i confinati politici. Gramsci era docente e scolaro: insegnava la storia e la geografia e prendeva lezioni di tedesco. La sezione scientifica era diretta da Bordiga. Poi di sera, in casa, si giocava a carte («Non avevo giocato mai finora; il Bordiga assicura che ho la stoffa per diventare un buon giocatore di scopone scientifico»). Alle spese di sussistenza i confinati politici facevano fronte con la «mazzetta» governativa di dieci lire al giorno. Gramsci assicurava di non aver bisogno di aiuti; scrisse a Tatiana «Non voglio assolutamente che tu personalmente debba sacrificarti per me: se hai la possibilità manda i tuoi aiuti a Giulia che certo ha maggiori necessità di me». Il soggiorno a Ustica, a conti fatti non opprimente, doveva però concludersi presto. Il 20 gennaio, quarantaquattro giorni dopo l’arrivo, Gramsci lasciò l’isola, diretto alle carceri milanesi di San Vittore.[8]
Ad alimentare questo “silenzio” sui quarantaquattro giorni ha contribuito la perdita della maggior parte delle lettere spedite da Gramsci.
La questione è di sicuro complessa. Ne parla Alessandro Fellegara in un suo scritto: leggiamo sette[9] delle ventidue lettere con certezza spedite da Gramsci; delle quindici disperse possiamo datarne solo undici, per le restanti ha prevalso l’incertezza. È certo che la corrispondenza effettiva deve essere stata più corposa, poiché è difficile pensare che l’intellettuale non cercasse in qualunque modo di mantenere i contatti con il mondo esterno, con Tatiana, con Giulia, con la madre, con Sraffa[10]. In generale, avverte Fellegara, sarebbe opportuno uno studio approfondito su Gramsci al confino di Ustica.
Il discorso sembra però ancora privo dell’elemento portante, la domanda – o intuizione – principe, che ha spinto o che potrebbe spingere verso lo studio: quale giovamento alla ricerca dal leggere quelle lettere? Quale giovamento dal conoscere i rapporti intrapresi da Gramsci nell’isola, quale invece dal conoscere le materie e la profondità dei temi coinvolti nel progetto educativo della “scuola”?
E quale utilità ancora nel comprendere quali fossero i rapporti fra gli insegnanti, gli studenti, la popolazione e le autorità che controllavano l’iniziativa? E in che rapporti fossero i politici e i prigionieri comuni; i politici e la colonia dei beduini di Cirenaica?[11]
Il confino rappresentò l’ultima esperienza a sud, quello conosciuto diversamente in Sardegna, la patria natale di Antonio Gramsci, e lo stesso ravvisato fra i proletari dell’industrializzata Torino. Il meridione avrebbe potuto rappresentare la forza di cambiamento in materia di lotta di classe, mutare la compagine statale italiana. Trattarne i problemi non sembrava così semplice patriottismo, ma interesse politico. È certo dunque che Gramsci rifletté spesso sulla cosiddetta questione meridionale, quel complesso di depressione finanziaria, subalternità politica e sociale, nonché arretratezza (apparentemente) culturale, che agli occhi del produttivo settentrione rappresentava al contempo una colpa e un peso da trascinare, lo stesso che impediva l’ascesa italiana in Europa. Nastro di partenza del fenomeno possono dirsi le lotte dell’unificazione d’Italia, pure convalidata coi plebisciti, ma con certezza unica soluzione soddisfacente dopo anni di lotte. A riguardo, numerosi gli studi contemporanei, che vedono dibattere una linea “revisionista” e una tradizionale. La prima muove dall’intenzione di dimostrare non solo la stabilità economica del mezzogiorno prima dell’unità, ma anche l’intenzionalità esclusivamente politica dell’unificazione, di fatto appoggiata tacitamente da potenze come la Francia e l’Inghilterra. L’aspetto economico, in questa tendenza, sarebbe propagandistico. Insomma, la volontà della linea di ricerca revisionista starebbe nel non accettare come dati di fatto l’arretratezza economica e socio-politica del mezzogiorno, attestata dalla tradizionale e accettata forse colpevolmente senza indugi. La seconda invece permane nella caratterizzazione di un meridione arretrato, inadatto, tanto economicamente quanto politicamente e insiste nel carattere di liberazione dall’oppressione borbonica. Di contro, come sottolinea Lucy Rial, è bene meditare sull’equilibrio delle due tendenze, poiché gli estremismi, concludo io, stanno male in politica come nella ricerca.[12]
La riflessione Gramsciana sulla questione meridionale si è dovuta affermare per tappe, in piccoli articoli pubblicati progressivamente fino all’esito parzialmente compiuto Alcuni temi della Quistione Meridionale (1926). Ne parla l’intellettuale nelle lettere: l’arresto ha impedito la conclusione di quel «rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull’Italia meridionale» (19 marzo 1927). Ravviso nei propositi di studio in carcere, accennati nel proseguire della lettera, un’intenzione di parziale cambiamento. Proprio questa intenzione vorrei collocarla per primo nella frattura storica dell’arresto, in secondo luogo nel periodo di confino. Perciò, l’interesse nei riguardi della documentazione e dello studio del periodo usticese potrebbe bene essere diretto ad approfondire l’evoluzione o progressione gramsciana in materia di problema o questione meridionale, che dir si voglia. Al prossimo paragrafo il compito di illustrare nelle linee generali lo scritto citato in precedenza e di concludere la riflessione sul suo carattere d’implicato, in silenzio avanzata alla fine di questo paragrafo secondo.
Gramsci e la sua eterodossia: Alcuni temi della Quistione Meridionale
Ai fini del discorso, sarebbe precipuo – o spontaneo – intendere l’incompiuto, insomma il non-finito, come dato non costituente della creatività gramsciana, ma storico, contingente, in definitiva accidentale e materiale. Sarà certamente cifra prima del saggio Alcuni temi della Quistione Meridionale (1926) interrotto all’arresto (abbiamo detto inaspettato), e poi dei Quaderni dal carcere (1929-35), cantieri “aperti”, da decifrare, d’uno spirito sempre in lotta.
Ritratto immediatamente: che lo spirito critico di Gramsci fosse portato sempre alla discussione, e che probabilmente il suo pensiero non avrebbe potuto radicarsi in un’opera, a meno di concepirla in fieri e dunque perennemente approssimativa, si avverte nei suoi scritti giovanili, tanto appassionati quanto globalmente differenti già dalle idee manifestatesi durante la “lotta” torinese, fino alla radicale constatazione d’una veduta del tutto periferica rispetto al Partito Socialista Italiano (PSI) e dunque la costituzione (non certamente in solitaria) nel 1921 del Partito Comunista d’Italia PCI, sezione italiana dell’Internazionale.
Anche all’interno dello stesso partito s’avvertivano dissidenze di fondo: Gramsci, è indubbio percepiva il valore-guida dell’Unione Sovietica, senza però “fede”. Nella lettera del 13 ottobre 1926 a nome dell’Ufficio politico del PCI al comitato centrale del Partito comunista russo, Gramsci il proprio dissenso verso la lotta interna al partito, dalla morte di Lenin. La politica del “socialismo in un solo paese” affermata dal triumvirato Stalin-Kamenev-Zinov’ev aveva relegato in secondo piano, per Gramsci, quel ruolo di «elemento organizzativo e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi» incarnato dall’Unione Sovietica e che, venuto meno, avrebbe certamente segnato la vittoria del capitalismo.[13] La lettera, centrale nella definizione di eterodossia gramsciana[14] è soltanto un esempio dell’approfondimento con il quale l’intellettuale indagava le criticità di un periodo storico caldissimo: grande infatti l’acume dimostrato nel saggio Alcuni temi della Quistione Meridionale[15]. Il problema centrale che determinava la difficoltà di attuazione della dittatura proletaria sembrava a Gramsci essere l’assenza di una base sociale ampia che sostenesse gli sforzi rivoluzionari, e quindi necessità dell’alleanza tra operai del nord e contadini del sud, il bisogno di un sistema di alleanze di classe, e con ciò il dovere per il partito di focalizzare le attenzioni alla complesso delle questioni meridionali storicamente determinate.
«[…] bisogna pensare come operai membri di una classe che tende a dirigere i contadini e gli intellettuali, di una classe che può vincere e può costruire il socialismo solo se aiutata e seguita dalla grande maggioranza di questi strati sociali».
Gramsci avverte anche che alla guida delle idee rivoluzionari è fondamentale l’intellettuale, lo stesso che ratifichi dal punto di vista ideologico l’alleanza fra le classi proletarie e contadini, trascini in somma la rivoluzione dal punto di vista del pensiero. Ma gli intellettuali meridionali, per Gramsci, sono uno strato sociale «dei più interessanti e dei più importanti nella vita nazionale italiani», fra i quali individua tre tipi: (1) Il vecchio tipo d’intellettuale come elemento organizzativo di una società a base contadina e artigiana. L’industria sarebbe poi intervenuta introducendo un nuovo tipo di intellettuale, l’organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata. Ma il vecchio tipo persiste laddove il sistema capitalistico non ha messo radici[16]; (2) Borghese rurale, cioè il piccolo e medio proprietario di terre, che non lavora la terra; (3) Il clero. Ma in cosa differisce con il clero settentrionale? Le differenze sono date dalla diversa entità di espropriazione dei beni ecclesiastici (da parte dello stato), che al sud è talmente bassa da implicare la “sovraimpressione” di più ruoli nella figura dell’ecclesiastico, che è anche amministratore di terre[17]. Il contadino meridionale, passaggio fondamentale, non può che essere legato al grande proprietario terriero per il tramite dell’intellettuale. Questo legame insomma rende circolare la successione degli eventi e porta i movimenti contadini ad essere riassorbiti nel sistema dell’apparato statale. Il blocco intellettuale ha perciò impedito che «le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana».
Proprio sul blocco intellettuale, quindi, per Gramsci è giusto agire, sganciando il legame fra status quo e contadini, formando una classe intellettuale alla guida del partito e quindi costruendo quella base sociale imprescindibile ai fini dell’attuazione della rivoluzione proletaria.
Nella lettera del 21 dicembre 1926 a Piero Sraffa, Gramsci racconta dei “corsi” iniziati, «elementari e di cultura generale, per i diversi gruppi di confinati». Una scuola che «lascerà larghe tracce».[18] Mi sembra di vedere con buona approssimazione un temperato intervento nella direzione individuata precedentemente. Scrive nella lettera del 19 marzo 1927:
«La mia vita trascorre sempre ugualmente monotona. Anche lo studiare è molto più difficile di quanto non sembrerebbe […]. Sono assillato (è questo un fenomeno proprio dei carcerati, penso) da questa idea: […] vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e centralizzasse la mia vita interiore. Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo è un indice che non riesco a raccogliermi, cioè: I° una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia nel corso del secolo scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, il loro diversi modi di pensare ecc. ecc. […] Ricordi il rapidissimo e superficialissimo mio scritto sull’Italia meridionale e sulla importanza di B. Croce? Ebbene, vorrei svolgere ampiamente la tesi che allora avevo abbozzato […]».
La scuola, in particolare, mi pare centrale nel progetto “pedagogico” gramsciano, che spesso nelle lettere s’è mostrato felice di poter intrattenere rapporti con la gente locale, e comunica la sua insoddisfazione per i permessi negati a loro, confinati politici, di intrattenere rapporti, invece, coi criminali coatti, per i quali più volte mostra preoccupazione.
Ho ripetuto più volte che Gramsci non ebbe il tempo di concludere lo scritto sulla questione meridionale. Questo, a parer mio, servì a “riaprire” il caso: periodo di transito fra la partecipazione politica e la reclusione stabile fu proprio il confino a Ustica, nel quale sarebbe forse rintracciabile, con le dovute precauzioni e con indagini appropriate, il germe del progetto di studio annunciato nella lettera del 19 marzo 1927 e poi in misura diseguale realizzato nei Quaderni. Sarebbe dunque opportuno, se anche il caso lo permettesse, che uno studio sul confino venisse approfondito, affinché fosse possibile la caratterizzazione di un processo evolutivo di pensiero, in apparenza scaduto (o lasciato precipitare) all’arresto, ma che venne ripreso e comunicato ai primordi dell’esperienza carceraria settentrionale.
Conclusioni
Per l’opera di Gramsci, l’incompiuto è carattere endemico: come sarebbe possibile pensare a un corpus epistolare concluso, come pensare a una riflessione “fatta” sulla quistione senza ammetterne dei confini mobili? Come pensare insomma a un’interruzione delle sue “corrispondenze”?[19]
Di questo incompiuto può farsi oracolo l’isola di Ustica, forse (in realtà con certezza) non unico punto di stazionamento del pensiero di Gramsci, ma periodo d’immobilità, oscuro peraltro nei suoi caratteri particolari alla ricerca storica. Il film ha voluto leggere quel buio nei termini di un riempimento documentario, attraverso un’esperienza quasi memoriale, quale trova la propria forza emotiva e, in una certa misura, storica proprio nelle testimonianze degli “eredi” del confino. Lo stesso sceneggiatore intravede nelle parole degli intervistati l’interferenza fra passato e presente, nella quale diventano straordinari i momenti in cui involontariamente le due narrazioni [di finzione e documentaria] si toccano, come ad esempio quando il centenario Guido Alessandri ci svela che i maiali ricordati nelle Lettere di Gramsci erano quelli di sua madre.
È anche chiaro che l’ipotesi di una riflessione parzialmente organica, germe della scrittura sulla stessa questione nei Quaderni, collocata nel periodo usticese, non può che essere soltanto un’ipotesi. A meno di documentazione a riguardo, sarebbe addirittura talvolta pericolosa l’ammissione di fasi, imponderabili, di elaborazione dei testi, per l’implicita svalutazione che inevitabilmente riverserebbe sulle testimonianze storicamente rintracciate e materialmente possedute.[20] La mia, dunque, vuole essere soltanto una proposta di lavoro.
«Cara Tatiana, desidero che tu mi scriva il più spesso che puoi. Anche a me è dispiaciuto moltissimo non averti potuto abbracciare prima della partenza. Ti racconterò tutta la storia, che dal punto di vista del carcerato è un piccolo romanzo…».
Un “io” che dibatte l’io narrato, in conclusione, del quale – finalmente – possiamo dire è scongiurata la caricatura, il pericolo più cocente.
Mi è parso di aver individuato le direttive (o linee generali) anche di un progetto cinematografico spesso dibattuto fra due poli. Ho detto passato-presente, finzione-documento, ricostruzione-eredità, pure dicotomia di personaggi: Gramsci e Bordiga.[21]
[1] Ringrazio i professori Gianni Francioni e Giuseppe Cospito per i suggerimenti di carattere bibliografico.
[2] Per un facile orientamento a questioni di lettura verticale e orizzontale, si consulti il capitolo quinto, paragrafo 7 “Nuove prospettive” all’interno del volume di Alfredo Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, Il Mulino, 1994 (quinta ristampa 2015).
[3] «Come è possibile che con tutto ciò che ho visto, con tutto ciò che ho vissuto, ancora vivo, ancora sono qua? Che vita brutta! Che vita da cani! Che vita sporca, che gelo, che fame, che miseria… tutto, tutto, tutto, tutto».
[Propriamente, laria è aggettivo per brutta, sporca, spesso da un punto di vista estetico: in una vecchia canzone popolare siciliana «quant’è laria a me zzita…» ovvero «quant’è brutta la mia fidanzata…»].
[4] «È invece sicuro che, considerando ogni testo come un sistema, i testi successivi possono apparire come l’effetto di spinte presenti in quelli precedenti, mentre a loro volta contengono spinte di cui i testi successivi saranno il risultato. In questo modo l’analisi della storia redazionale e delle varianti ci fa conoscere parzialmente il dinamismo presente nell’attività creativa». Da Cesare Segre, Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino, Einaudi, 1985.
[5] Peppino Mazzotta (Domanico 1971) ha interpretato, fra i molti ruoli (teatrali, cinematografici e televisivi), anche quello dell’ispettore Fazio nella serie televisiva del Commissario Montalbano, dal 1999; nel 2014 interpreta uno protagonisti del film Anime nere di Francesco Munzi (dall’omonimo libro di Gioacchino Criaco, Catanzaro, Rubbettino, 2008) presente alla 71ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Per questo film, viene candidato assieme ai coprotagonisti Fabrizio Ferracane e Marco Leonardi al Nastro d’argento al migliore attore protagonista.
[6] «[…] solo che qua perché li mandavano? Perché non potevano scappare per nessun lato. Si dovevano buttare a mare»
[7] Per montaggio parallelo si intende quella tecnica di montaggio (dunque in post-produzione rispetto alle riprese) che giustappone più riprese, più inquadrature che tra loro presentano differenze di ordine spaziale e al contempo temporale (giustappone o provoca scontro ai fini di un significato terzo, le teorie sul montaggio hanno da sempre suscitato dibattiti anche molto caldi, ne parla, tra i tanti, l’eccelso Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, cineasta sovietico della prima metà del XX secolo).
[8] Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, 1966, volume 39 della collana Universale Laterza, capitolo ventitreesimo.
[9] Ustica, 9 XII, 926; Ustica, 19 XII 1926; 21. XII. 1926; 2. 1. 1927; 7 gennaio 1927; 15. 1. 1927 (a Tania); 15. 1. 1927 (a Julca). Da Antonio Gramsci, Lettere al carcere, Torino, Einaudi, 1947 (nella ristampa del 1971).
[10] Fondamentale per approfondire il carattere dei legami che Gramsci intrattenne, rimando al libro di Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci, 1926-1937, Torino, Einaudi, 2014, in particolare ai capitoli I Prima dell’arresto (soprattutto il paragrafo primo Le sorelle Shucht in Russia e in Italia), II Tania Shucht e III Il ruolo di Piero Sraffa e i primi tentativi di liberazione. Giuseppe Vacca (Bari 1939) è presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma e della Commissione scientifica dell’Edizione nazionale degli scritti di Antonio Gramsci.
[11] Alessandro Fellagara, Gramsci ad Ustica, IGS Newsletter, March 1999. Abstract della tesi di laurea in Letteratura Italiana (Università di Genova) su “Antonio Gramsci al confino di Ustica”.
[12] Non è possibile affrontare gli studi contemporanei sulla questione meridionale. Per un panorama generale non solo sul fatto, ma anche sullo studio del fatto: Lucy Rial, Il Risorgimento, Storia e Interpretazione, 2007, Donzelli; e il più corposo volume di Gilles Pécout, Il lungo risorgimento, La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), 2011, Bruno Mondadori editore. In entrambi i volumi è inoltre possibile trovare utili rimandi bibliografici.
[13] Essenziale riferimento bibliografico per le questioni interne all’Unione Sovietica, nonché per un quadro storico generale, è il manuale di F. Cammarano, G. Guazzaloca, M. S. Piretti, Storia contemporanea, dal XIX al XXI secolo (seconda edizione), Bologna, Le Monnier, 2015.
[14] Giuseppe Vacca, Vita e pensieri di Antonio Gramsci, 1926-1937, Torino, Einaudi, 2014, cap. I Prima dell’arresto par. II, pag. 25-41.
[15] Alcuni temi della quistione meridionale, pubblicato incompiuto ne “Lo Stato Operaio”, a. IV, n. 1, gennaio 1930, ma risalente all’ottobre 1926.
[16] «[…] democratico nella faccia contadina, reazionario nella faccia rivolta verso il grande proprietario e il governo, politicante, corrotto, sleale; non si comprenderebbe la figura tradizionale dei partiti politici meridionali, se non si tenesse conto dei caratteri di questo strato sociale».
[17] Dunque il contadino meridionale non è religioso in senso stretto, ma superstizioso: «Il prete è prete sull’altare; fuori è un uomo come tutti gli altri».
[18] Solo l’ultima citazione, dalla lettera del due gennaio 1927, sempre a Piero Sraffa.
[19] Vorrei poter intendere per “corrispondenza” una perenne discussione di Gramsci con l’altro, il suo interlocutore-lettore al quale pedagogicamente pare rivolgersi puntualmente.
[20] In generale, nell’ambito dello studio letterario, è sempre complesso ammettere fasi di composizione o elaborazione “orali”, insomma immaginare una più o meno lunga “preistoria” dell’opera letteraria, in mancanza di documentazioni che la possano testimoniare. Non è difatti un’operazione innocua, perché questa ammissione ha in sé l’implicita svalutazione di ciò che segue la preistoria, quindi di ciò che sappiamo con buona certezza: i documenti e le testimonianze che possediamo perderebbero di valore, a favore di documenti e testimonianze che non possediamo, e che diverrebbero così dei modelli ideali irraggiungibili. A titolo d’esempio, Giuseppe De Robertis attribuiva al Cantare la data testimoniata dal più antico esemplare, senza privarsi di ipotesi su una “preistoria”, ma con dovuta cautela.
[21] Risulta non poco piacevole anche la delicata rappresentazione di una dissonanza fisica, il solido Bordiga, il fragile Gramsci… quando alle parole l’antitesi fra i due s’accendeva senza risparmio. Interpretati rispettivamente da Amerigo Melchionda e Peppino Mazzotta (nota 6).
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