
Un gatto nel cervello: il dottor Fulci e la sua barca a vela
Va ricordato che uno psicanalista è l’unico medico che viene sempre pagato,
indipendentemente dai risultati.
(Lucio Fulci)
L’uomo che traghettò definitivamente Celentano e la coppia Franchi – Ingrassia al Cinema.
L’autore di capolavori dell’horror che portarono sul panorama internazionale idee visive e narrative uniche senza le quali sarebbe difficile pensare a registi come Sam Raimi (La Casa) o Peter Jackson (Il signore degli anelli).
L’autore di Gialli in cui la sfera dell’indagine si univa al campo del soprannaturale e la violenza veniva mostrata con messinscena e montaggio degni di un incubo.
Questo e molto altro era Lucio Fulci.
La sua fu una carriera di più di quarant’anni passata attraverso messinscene diverse, come tanti suoi colleghi dell’ambito erano obbligati a fare. Eppure, in questa sconfinata opera di più di cinquanta titoli, anche se i pezzi sono tanti la figura alla fine è sempre e solo una: il suo stile; sfaccettato, ma unico e riconoscibile. Un’essenza talmente forte che persino la critica avversa la percepiva.
Diceva Kezich, parlando de L’Aldilà:
“Si nota che tra banalità dei contenuti e cattivo gusto sanguinolento riesce a farsi spazio una scrittura cinematografica efficace e persino elegante. Merito di Lucio Fulci, milite ignoto del Cinema popolare…”
Un uomo che accettava di tutto, ma solo se poteva lavorare avendo l’ultima parola (esemplare il caso di Zombi 3).
Tuttavia gli anni di Un gatto nel cervello sono gli anni della fine.

Questo film è nato grazie ad un fallimento. Il fallimento di “Lucio Fulci presenta”: una serie di film tv per Mediaset, di cui solo due firmati dal regista. Realizzata con pochissimo budget, poco personale e in un tempo limitatissimo, non fu mai trasmessa dalla rete.
Col tempo si matura un accordo per un film cinematografico: in modo analogo ad altre produzioni di serie z anni ‘70-’80 (o all’opera prima di Woody Allen Che fai, rubi?), spezzoni tratti dalla serie verranno rimontati assieme a del materiale inedito e ridoppiati per ottenere nuovo senso. L’accordo va in porto e nel 1990 esce il film.
In questa commedia (?) thriller/horror vediamo Fulci nei panni di sé stesso a lavoro su un suo film dai forti toni violenti e splatter: nel pieno di un periodo di forte stress lavorativo, che non fa che procurargli estreme visioni di violenza, si rivolge ad uno psichiatra di paese (sosia di Sigmund Freud). Questi accetta subito il caso, ma Fulci non sa che dietro il suo medico si nasconde un uomo frustrato dalla moglie acida e dispotica. Commettendo una serie di delitti, che culmineranno con l’uxoricidio, lo psichiatra sfogherà il suo animo violento e tenterà, anche attraverso l’ipnosi, di incastrare il suo fragile paziente.

Diciamo le cose come stanno: tra i più grandi problemi del Gatto c’è proprio l’ingombrante presenza degli spezzoni da integrare.
Un primo gruppo di frammenti va a creare il film fittizio in produzione, un secondo gruppo gli omicidi dello psichiatra.
I problemi di quest’operazione sono principalmente due.
Il primo è il cambio di stile plateale. È chiaro che quando si alternano riprese non tratte da suoi film, lo stacco sia decisamente evidente (ad esempio fotografia e qualità immagine differenti), ma il gap stilistico e qualitativo aumenta quando è chiaro che spezzoni di stampo televisivo anni ’80 vanno ad unirsi a materiale inedito di stampo cinematografico.
Il secondo problema è una continuità nel montaggio non sempre efficace. Probabilmente dovuta a tempi stretti e piccole disattenzioni.
Viene naturale chiedersi: “Perché parlare di un genio e poi prendere una delle sue opere peggiori?” Perché, in fondo, questa non è una delle sue opere peggiori.

Possiamo apprezzare la semplicità e il gusto con cui Fulci “ricostruisce” sé stesso, portando nel film diversi rimandi alla sua vita e al suo pensiero, come la sterilità dei divetti di serie b italiani, il rapporto con gli invalidi, la freddezza dell’Uomo moderno. Si medita sulla suggestione che può dare un film di paura, ma si bolla come idiozia la tesi di ispiratori di violenza che veniva data alle pellicole Gialle e dell’Orrore.
Anche il finale accende diverse lampadine ed è forse la cosa più bella del Gatto nel cervello.
La disavventura è finita e Fulci si prende una vacanza su una barca a vela accompagnato da una bellissima ragazza: l’assistente dello psichiatra, che tanto lo corteggiava per poter partecipare ad un suo film. Ma, non appena la ragazza si reca nella stiva per prendere delle esche, Fulci abbandona la guida della barca e la segue. Calmo e tranquillo, il regista torna con la cesta delle esche. Dentro niente lombrichi, solo piccoli pezzi della ragazza.
Un grido s’intromette: “Stop!“
È l’assistente alla regia. Le riprese del film sono finite. Fulci, allora, prende il controllo della sua barca a vela, la ragazza, rediviva, torna sul ponte e insieme partono verso l’orizzonte, salutati da tutta la troupe.
In questo finale, così ironico e sereno c’è Fulci, il suo rapporto con il lavoro e con il genere violento in cui era specializzato: nient’altro che un gioco, un’esperienza forte, artaudiana, per uscire liberati da paure ataviche e tornare alla vita di tutti giorni. Magari con un po’ più di forza e leggerezza.
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[…] diretti da Bruno Corbucci, nella saga di Nico Giraldi, e nel contempo collaborerà con il regista Lucio Fulci in Beatrice Cenci, Non si sevizia un paperino e i Quattro dell’apocalisse. A partire dagli anni […]