
Lo zoo di vetro | Leonardo Lidi tra memoria e realismo
Alla sua prima nazionale a Milano, Leonardo Lidi porta in scena Lo zoo di vetro, lo spettacolo che nel 1944 consacrò Tennessee Williams al grande pubblico, rielaborando il racconto Ritratto di una ragazza di vetro che l’autore scrisse dieci anni prima.
Amanda (Mariangela Granelli) è la madre della famiglia Wingfield, casalinga ritrovatasi a dover crescere i suoi due figli, Thom e Laura, dopo essere stata abbandonata dal marito. Chi ci parla è Thom (Tindaro Granata), la cui esistenza si divide tra un magazzino di scarpe, l’oppressione della vita famigliare e l’evasione dolceamara del cinematografo. Sua sorella Laura (Anahì Traversi) emerge come vittima della sua debolezza innocente (soffre infatti di una leggera zoppia) e delle cure ossessive di una madre che le pianifica un futuro costruito a tavolino che Laura non solo non vede, ma forse nemmeno desidera.
Dopo gli Atridi della Santa Estasi di Antonio Latella e la famiglia Alving degli Spettri di Ibsen, con cui si è distinto alla Biennale Teatro, Lidi sceglie ancora un nucleo famigliare, in quello che lui stesso ha definito essere «un divertito viaggio personale attraverso le famiglie del Teatro». In questo caso il focolare fa i conti con un’assenza, quella paterna, e vive tormentato da una figura ingombrante che non si può uccidere poiché negatasi.
In questo quadro, se Thom è frustrato e incapace di modificare il proprio destino, nella resa di Lidi egli è però perfettamente capace di raccontare il proprio dramma: voce narrante e personaggio agente, racconta la sua storia mostrando con sincerità la finzione di cui si servirà.
«Mi chiamo Tommaso e sono un pagliaccio. Sono qui per raccontarvi la mia verità. Per farlo ho bisogno di finzione, io vi darò verità sotto il piacevole travestimento dell’illusione. C’è molto trucco e c’è molto inganno. Il dramma è memoria, è sentimentale non realistico.»
Così si apre lo spettacolo e queste parole sembrano subito voler sancire un patto con lo spettatore riguardo alcuni aspetti visivi che solo apparentemente – parola di Thom – creano distanza tra la platea e il palcoscenico. L’uso della maschera clownesca, l’allestimento di una scenografia in cui l’ambiente di casa è figura stilizzata dal colore insolito – un rosa carico, quasi straniante – e l’adozione della luce fredda di un lampione – genialmente posto a lato del proscenio – sono infatti tutti elementi che richiamano fin da subito una forte spettacolarizzazione della scena (firmata da Nicolas Bovey), molto comunicativa: il risultato cattura l’attenzione dello spettatore, anche se forse quest’ultimo potrebbe non comprenderlo fino in fondo.
L’intromissione frequente della realtà nella finzione, anche attraverso un suo parziale smascheramento (diverse sono le tessere metateatrali) e l’utilizzo della stessa finzione più esplicita per la costruzione di una verità drammatica fortemente umana, sono due dei poli intorno cui Lidi ragiona nella sua lettura dell’opera.
È poi davvero virtuosistica – anche e soprattutto grazie alla forza interpretativa degli attori – la macchina che Lidi costruisce nella resa del conflitto tra madre e figlio che, come avviene talvolta nel processo mnemonico, si materializza sul palco proprio con la lentezza del dispiegarsi di un ricordo: un litigio furioso tra i due viene annunciato in una lenta ed ecolalica escalation, in una sfalsata confluenza delle due voci. Lo scontro viene preparato lentamente e, se all’inizio appare confuso e disorientante, esplode poi con grande chiarezza in un dialogo perfettamente sincronizzato dalla potenza febbrile.
Lidi ci trasporta con tratti al tempo stesso chiarificatori e dissimulatori in un personale viaggio alla scoperta di alcuni dei personaggi più autobiografici dell’autore (Thomas, per dirne una, era il vero nome dello stesso Williams) e del loro dramma umano, attraverso un continuo rimbalzo tra narrazione e azione, in cui i tempi sono ben giocati e scanditi – in una vera e propria divisione in atti – dal personaggio-arbitro Thom. Il racconto e la rappresentazione della sua verità prendono forma e si animano di una vita dal ritmo sincopato, improvvisamente debordante e subito dopo immobile, immutabile, come gli oggetti di vetro da cui Laura non riesce a negare le proprie attenzioni e che, non a caso, insieme alle vecchie canzoni, permettono il collegamento con il ricordo paterno.
Solo l’intrusione di un elemento esterno, Jim (Mario Pirrello), potrà innescare in Thom il processo narrativo da cui tutto parte. L’arrivo del collega di lavoro suscita infatti grandi speranze in tutti e porta sulla scena una diversa vitalità, spontaneità e libertà, ma al tempo stesso rompe velocemente e irreparabilmente alcune dinamiche famigliari importanti, senza l’assumersi da parte di Jim della responsabilità che ne deriva. Di fronte all’accaduto e alla disillusione, l’unica cosa che resta da fare, come afferma Thom all’inizio, è raccontarsi, senza velleità di realismo.
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