
La città morta di Leonardo Lidi – Ricordi da Venezia
Dopo la felice regia de Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, Leonardo Lidi torna a Venezia con l’esordio teatrale di Gabriele D’Annunzio, La città morta.
Nel 1895, in occasione di una crociera in Grecia, D’Annunzio visita Atene, Corinto e Micene. Sono i luoghi, identitari ed eloquenti, dei ritrovamenti di Schliemann e delle radici dei nostri archetipi culturali. Rimane profondamente affascinato e al ritorno decide di tentare, anche nel teatro, l’innesto nella tradizione.
La città morta nasce così. In pieno stile dannunziano, il primo approccio al teatro è: riscrivere la tragedia greca. Ifigenia, Cassandra, Antigone, le recupera tutte attraverso le specificità del loro dolore, dei nodi esistenziali che serbano in petto, e le rievoca tramite la citazione testuale.

Ne La città morta di Leonardo Lidi, la scena (opera di Nicolas Bovey) è un quadro da musical stereotipato anni ’60, tra spalti sportivi e un fondale bidimensionale di fronde da cartellone pubblicitario, a cui si intonano i costumi dei personaggi (a cura di Aurora Damanti). Danny Zuko-Gabriele (Mario Pirrello) è un poeta che ricalca la figura autoriale, sposato alla cieca – e isterica – Anna. Tuttavia, è innamorato, anzi, desidera la dolce e pura Bianca Maria (Giuliana Vigogna), alla quale rivolge le parole più dolci di cui è capace, e qualche serenata.
Questa anima bella è sorella e compagna di vita di Leonardo, un archeologo ossessionato dalla ricerca delle tombe degli Atridi. E non solo. La tragedia, infatti, in pieno regime tragico, si consuma tutta nell’impossibilità di Leonardo di amare sua sorella. In un delirio di negazione della propria pulsione, Leonardo si convince che solo attraverso l’uccisione di Bianca Maria potrà estinguere la sua colpa. Un’uccisione, come ricorda anche la figura di Ifigenia, che ha il sapore del sacrificio, del martirio.

Ora imagina uno che inconsapevole beva un tossico, un filtro, qualche cosa d’impuro che gli avveleni il sangue, che gli contamini il pensiero: così, all’improvviso, mentre la sua anima è in pace… […] S’impadronisce di te, ti occupa il sangue, ti invade tutti i sensi. E tu sei la sua preda, la sua preda miserabile e tremante; e tutta la tua anima, la tua anima pura, è infetta; e tutto è in te macchia e contaminazione… Ah, è credibile questo?
Parole di Leonardo in uno straordinario monologo in cui descrive il suo peccato, la sua reale ossessione che sfoga con la ricerca dei resti degli Atridi. Tutto il giorno tra la polvere e l’arsura finché, finalmente, non trova le tombe. Capisce però che nessuna profusione d’oro può cambiare il suo sentire. Che il desiderio dichiarato di una vita non sopprime il desiderio indicibile che prova in tutti i modi a rimuovere. Perché – e questo D’Annunzio e Freud proprio in quegli anni lo avevano capito bene – semplicemente non si può fuggire per sempre.
Allora, l’omicidio, anzi il femminicidio (io non posso amarti dunque tu non puoi vivere), vissuto e raccontato come una purificazione dell’uomo attraverso – guarda un po’ – la donna. Come i greci, come allora.

E la fine, con tanto di luce in fondo al tunnel, letteralmente. Anna – che, per quanto non chiaro dallo spettacolo, è la moglie di Leonardo – riacquista la vista, proprio grazie al sacrificio di Bianca Maria, simbolo della sconfitta della sua amica-nemica. A guardarlo così da vicino, La città morta di D’Annunzio ha tutta l’aria di un’overdose da grecomania. Sublime, ma pur sempre un’overdose. Una lotta estrema e confusiva, del tutto inutile, tra puro e impuro.
La regia di Leonardo Lidi chiede ai suoi attori, e specialmente all’instancabile Christian La Rosa, nel triplo ruolo di Leonardo, Anna e Giggino – un improvvisato venditore di bibite e paladino dell’abolizione della povertà – di sostenere una prosa strabordante a ritmi incalzanti. Si ha come la sensazione di trovarsi di fronte a una persona che ha paura di non essere ascoltata fin in fondo e che corre, corre senza quasi permettersi di respirare. Il ritmo serrato lo si trova anche nei movimenti, febbrili, come nei repentini cambi di personaggio tra Leonardo e Anna.

L’angoscia e la frenesia che ne derivano, in contrapposizione alla fissità della scenografia, vengono azzerate da intermezzi musicali della tradizione nazional-popolare italiana, interpretate dagli stessi attori. Distensioni (volute?) che calmano un senso di irrequietezza, piuttosto che il processo di adesione catartica al dramma inscenato. La contaminazione tra registro alto della poesia dannunziana, con tratti di innegabile qualità, e registro basso, pop, che strizza l’occhio alla contemporaneità (anche a quella più cogente), non convince affatto.
Pubblicato nel 1896, La città morta – non è un mistero – non ha mai conosciuto il successo, né della critica né del pubblico. Ascoltandolo se ne capisce il perché. Il vate indugia nel sublime di una storia dal sapore torbido e incestuoso che smaschera la dabbenaggine del tempo in cui è scritto – e di tutti i tempi –, ponendolo di fronte all’irriducibile conflitto tra Eros (il principio del desiderio, la pulsione di vita) e Thanatos (la pulsione di morte, di conservazione).

Tuttavia, la prosa dannunziana prestata alla drammaturgia, a questo primo tentativo, non vibra della stessa forza della tragedia greca, e l’esito è incerto. Le descrizioni e le sfumature dei quattro principali personaggi cavalcano il lirismo, a seconda del gusto, in modo formidabile, certamente più godibile per una lettura silenziosa, solitaria, intima, ma non per la scena.
Leonardo Lidi risponde alla chiamata di Antonio Latella, direttore di Biennale Teatro, a confrontarsi sul tema della censura compiendo un’operazione assimilabile a quella che fu di D’Annunzio all’epoca della stesura del testo: come la tragedia greca era “cosa morta” per il teatro a lui contemporaneo, così oggi lo è, nell’opinione condivisa, D’Annunzio per noi. A torto, probabilmente, ma a ragione quando oggetto di forzature.

Perché rievocare a tutti i costi senza la forza di far rivivere ciò che è morto? O piuttosto, l’obiettivo che Lidi si pone è quello di vivificare o di mortificare? Se questo sia un rischio dettato dalla convinzione di un’intuizione o puro piacere provocatorio, non ci è chiaro. La lettura di D’Annunzio e della sua opera all’insegna della categoria del fake, così come da presentazione, non convince e, soprattutto, non chiarifica le istanze creative di partenza.
Vuole essere una parodia di un non riuscito D’Annunzio tragico, ma senza rinunciare alla bellezza e alla dolcezza della poesia, o prende in giro autore e testo per dare respiro al pubblico e quasi scusarsi del proprio azzardo?
Nella descrizione de La città morta, si legge infatti: «Che cosa c’entrano Little Tony e Bobby Solo nella prima opera teatrale del Vate? E perché un improbabile Gabriele D’Annunzio si aggira vestito da Dennis Zucco nella gradinata di una scena di Grease per attirare le attenzioni della sua Sandy? La risposta, per fare i moderni, si potrebbe ritrovare nella parola dell’anno: Fake. Il Fake è qualcuno che falsifica la propria identità mentendo sulla propria condizione, sulle proprie competenze professionali, qualcuno che assume un nome diverso dal proprio per ottenerne vantaggi.»

Si promette di “far ridere” con “inaspettato divertimento” – e grazie al cielo ogni tanto succede, facendo respirare (almeno) il pubblico – e di trasportare la platea in un viaggio all’insegna della “pura poesia”. È vero, si sorride e si ode della poesia sublime, perché per quanto si provi, come Leonardo non riesce a reprimere sé stesso, così è difficile falsificare D’Annunzio. Ma a sipario chiuso, il desiderio è solo quello di correre a casa, farsi una camomilla e non chiedersi il perché di nulla.
Sulla scia di Tennessee Williams e degli Spettri di Ibsen, con cui nel 2017 Leonardo Lidi ha vinto il premio per registi under 30 della Biennale, il regista prosegue il suo percorso attraverso i grandi maestri del secolo scorso. Alzando il tiro e, spiace dirlo, mancando il segno. Forse la prima assoluta è stata un banco di prova, e forse – speriamo – la pausa obbligata a cui il teatro è costretto permetterà a Lidi di ripensare alcuni aspetti dello spettacolo. Chissà! Quel che è stato è stato, per ora, non ci resta che aspettare.
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