
Algoritmi della visione – Luca Ferri dialoga con Birdmen Magazine
Luca Ferri è passato all’EX|ART FF di Pavia anche quest’anno. In quell’occasione è stato intercettato da Birdmen, che con lui ha iniziato una conversazione a più riprese. Si è parlato di Pierino, suo ultimo film, di modelli, Cinema di ricerca e molto altro. Ecco come è andata.
Luca Ferri (Bergamo, 1976) è scrittore, fotografo e regista. Nel 2011 Magog [o epifania del barbagianni] è selezionato al Pesaro Film Fest. Nei due anni successivi gira Ecce Ubu, Kaputt e Habitat [Piavoli], quest’ultimo è selezionato al TFF. A Torino ritorna nel 2014, con Abacuc, già presentato in Argentina, mentre Caro nonno vince il premio della giuria a Trento, per Cinema Zero. A FilmMaker partecipa nel 2015 con Cane caro, nel 2016 con Colombi (presentato in Orizzonti a Venezia), nel 2017 con Ab ovo e nel 2018 con Pierino. Sempre nel 2018 Dulcinea è a Locarno. Il suo prossimo film, La casa dell’Amore, è previsto per il 2020.
I tuoi film non sono una mera successione di immagini. Traspare una struttura congeniata con precisione, che sembra evocare altri riferimenti. Quali sono e come ti influenzano nella tua produzione?
Il mio cinema nasce dagli interessi che mi muovono, estranei per lo più a ciò che è convenzionalmente cinematografico. Sono appassionato di scrittura, fotografia, teatro. Anche teatro delle marionette, che vedo sempre quando sono a Palermo o quando a Milano visito l’Atelier Carlo Colla, un esempio di grandissima avanguardia e complessità: in Dulcinea, per esempio, agli attori è stato chiesto di comportarsi come pupi, totalmente inermi. L’architettura, poi, è forse la mia più grande passione. La fotografia applicata all’architettura e al paesaggio ricorre in Una società di servizi, Ridotto Mattioni o Magog. Questo – e molto altro – concorre quando mi accingo ad un nuovo lavoro: per assurdo, la materia cinematografica è “di risulta”.
L’interesse per l’architettura emerge anche nel tuo ultimo film, Pierino, girato quasi esclusivamente in interni. Insieme a Dulcinea e al tuo prossimo film, La casa dell’Amore, andrà a comporre quella che tu stesso definisci la Trilogia domestica. L’ambito della casa che implicazioni ha per te?
Tutti i tre lavori sono girati in interni. In Pierino le uniche due inquadrature all’aperto sono quella iniziale e quella finale. Sono comunque legate ad un ambito domestico, perché sono state girate con una vetusta macchina VHS, fisicamente collegata alla corrente in casa di Pierino. L’architettura fa sempre parte dei miei film, un elemento preponderante già da Habitat [Piavoli]: un lavoro sul regista Franco Piavoli, dove si osserva la sua casa per arrivare alla sua idea di cinema. Ho sempre trovato interessanti le corrispondenze fra il linguaggio di una persona e il mondo in cui vive, gli oggetti di cui si circonda. Mi è successo di trovarmi in contesti slegati alla persona che li abitava. Un po’ come trovarsi di fronte a qualcuno che è affascinato sia da Le Corbusier che da Gary. È probabile che non abbia capito uno dei due architetti o che abbia un approccio voyeuristico: in ogni caso mi vengono dei dubbi. È bello trovarsi in una dimensione di coerenza. In Pierino vi è una fusione totale fra abitazione e personaggio. Tuttavia, il tema di Pierino è molto stratificato e in tanti l’hanno frainteso. Il film non è né comico né prettamente biografico. Rimane costante l’idea di trovarsi all’interno di un meccanismo, di una struttura.
Parlaci di come questo concetto sembri prevalere in Pierino.
Il film è un ritratto affettuoso, ma non ha la pretesa di essere una sintesi esaustiva della sua vita. Il disegno che ci sta sotto è così preciso ed ingegneristico che poteva fare a meno dello stesso Pierino. La sua personalità ha reso lo svolgimento dei lavori molto naturale, ma a sostenere il film è stato il rispetto rigoroso di un accordo a priori, che prevedeva che mi recassi alla sua abitazione per 52 giovedì nell’arco di un anno, dalle 10:30 alle 11:30. Se capitava che mi presentassi prima, Pierino mi faceva aspettare fuori dalla soglia fino all’orario stabilito. All’aprirsi dell’abitazione ero assalito dai suoi monologhi infiniti. A me bastava posizionare l’attrezzatura e cominciavo a girare la sua routine. Un approccio formale con Pierino è stato consono al mio modo di lavorare. E quando c’è una struttura così precisa il modello si può replicare n volte, esportandolo anche su altri soggetti. In quest’ottica il film potrebbe fare a meno non solo di Pierino, ma anche del regista. Non tutti i film hanno bisogno di registi. Per trovare un parallelismo: in Italia, per esempio, vi sono grandissime forme di architettura senza architetti. Si pensi a Matera, o a certi borghi caratteristici. La spontaneità urbanistica causata dall’assenza di un ordinamento ricorda un lavoro come Pierino, un cinema che vive di vita propria. Se mi si chiedesse l’autorizzazione, sarei curioso di veder utilizzato lo stesso modello da altri. Bisogna rispettare l’idea con rigore, togliendo tutti i pretesti artistici: dove c’è arte c’è truffa, generalmente. È interessante un approccio matematico ingegneristico, simile a quello che poteva avere, in architettura, Pierluigi Nervi.
È lo stesso per altre opere?
Vi sono stati casi in questa dimensione progettuale è stata ben più estrema. Ecce Ubu è il risultato di un calcolo matematico. Sessanta scene estratte da un archivio storico si succedono occupando gradualmente spazio maggiore. Un altro lavoro rigorosissimo, quasi di follia metodica, è Curzio e Marzio. La scrittura di Colombi, poi, è avvenuta in Excel.
Un metodo documentaristico preciso e asettico, di cui sei evidentemente geloso. Eppure, il tuo sguardo sul signor Pierino Aceti talora sembra tradire emotività…
C’è amore e rispetto per Pierino. Averlo conosciuto è stata una delle poche cose buone che mi ha dato il mio cinema, ma, come ho già detto, il film poteva esserci anche senza di lui. L’evidenza è che la struttura per questo film era stata originariamente pensata per il mio vicino di casa. La riflessione è poi caduta su Pierino, e forse è proprio questa struttura ad avermi permesso di affezionarmici così tanto e, mio malgrado, così evidentemente. Anche la regia è stata scalfita da questo rapporto; già il fatto di non vergognarmi di inquadrature a mano, un’eccezione nella mia intera opera, vorrà pur dire qualcosa. Un’incrinatura emotiva si percepisce anche nel film appena girato; La casa dell’Amore avrebbe dovuto essere un film programmatico. Infine, ci siamo trovati in una situazione diversa. Ma le intenzioni iniziali non sono un aspetto secondario del cinema: bisogna avere quanto più rigore possibile. Soprattutto nel documentario. Il rispetto di una struttura come quella utilizzata in Pierino permette esiti completamenti diversi rispetto a documentari di interviste, o girati in due settimane. Se non ci fossimo focalizzati sulla routine, sulla meccanica reiterazione di certi atti da parte del protagonista, avremmo ottenuto qualcosa di più simile ad un freak show, dagli esiti molto più comici. Abbiamo in questo senso tagliato la maggior parte delle esilaranti considerazioni sul cinema di Pierino. Il film avrebbe avuto più successo, specie ai festival, ma abbiamo preferito attenerci alla struttura. Non di secondo piano il fatto che per girare un film come questo serva un intero anno.
Il tempo della ripresa non sembra in Pierino esclusivamente programmatico; dietro ai tuoi film si intravede una riflessione sul concetto di cronologia e ripetizione. Vorresti fornirci qualche coordinata?
Il tempo è importantissimo, ma la sua considerazione cambia a seconda del progetto. Ci sono casi in cui la durata dell’opera aderisce alla durata delle riprese o della tematica a cui si allude. Pierino non può prescindere dal riferirsi costantemente alla successione delle 52 giornate di riprese. In Dulcinea, l’ora metafisica entro cui esistono i personaggi corrisponde alla durata della prestazione sessuale. Questi riferimenti temporali scompaiono invece in altre opere, dove la struttura è governata dalla partitura musicale.

La musica nei tuoi film ha un ruolo fondamentale. Nella scorsa intervista per Birdmen hai parlato del sodalizio con Dario Agazzi, che non è solo compositore, ma un esegeta del tuo lavoro. Come funziona la vostra collaborazione?
Dario Agazzi lavora in scrittura e quindi non può prescindere dalla ricerca di una struttura. Mi sono reso conto che nei lavori in cui manca il suo contributo, come in Pierino, l’impalcatura filmica appare più robusta. Quando invece Dario è presente e come se il film diventasse quasi un corollario alla partitura musicale. Un esempio clamoroso ed evidente è in Curzio e Marzio. Uno dei lavori più belli che abbiamo fatto insieme, dove l’immagine si mette a disposizione della composizione musicale. Lui non compone solitamente per il cinema, e non gli si può certo chiedere un mero tappetino sonoro: il suo linguaggio gode di riconoscibilità e non può essere sottoposto ad indicazioni esterne. È accaduto che il film si sviluppasse a partire dalla traccia musicale: un esempio notevole è Ridotto Mattioni. Per Pierino e La casa dell’Amore la musica colta di Dario non c’entrava. Nel primo ho utilizzato jingle senza diritti; il secondo non avrà musica.
Anche la scelta del formato appare rigorosa. Nella Trilogia domestica i formati utilizzati vanno dal più vetusto al più recente.
Ciò è del tutto casuale. Vi è ragionamento nella scelta del formato in funzione di quello che si deve girare. Si ha oggi la fortuna di disporre di una moltitudine di apparati tecnici. È ottuso storicizzarli. Per Pierino la scelta del VHS è stata logica: le sue ragioni di disvelano alla fine, alla vista della sua collezione di videocassette. La vita di Pierino evoca una dimensione analogica. Ci siamo subito resi conto che il digitale non era il formato più indicato e abbiamo dovuto aspettare nuovamente gennaio per le nuove riprese in VHS. Per Dulcinea il discorso è simile: l’uso della pellicola 16mm per ritrarre oggetti e segmenti della protagonista si inserisce in una riflessione sul feticismo. La scelta del digitale ne La casa dell’Amore è stata dettata da un motivo tecnico specifico. Bianca, la transessuale protagonista, vive in un appartamento senza energia elettrica. La scarsa illuminazione e la ricerca di una buona risoluzione suggerivano il digitale. Da un punto di vista visivo Ab Ovo è senz’altro il lavoro più potente. Un saggio visivo realizzato con Pietro Detilla. Siamo partiti per il Marocco con solo dieci bobine di Super 8 Colore. Se qualcosa fosse andato storto il film non ci sarebbe stato.

Il formato non è dunque una scelta puramente estetica, come invece lo è per molti registi underground. Hai oggi degli autori di riferimento? E dove credi stia andando il cinema?
Focalizzarsi, su un formato o su alcuni paradigmi, è uno dei più grandi limiti dell’attuale cinema di ricerca. Non sono convinto si debba sembra ricercare una specifica riconoscibilità. Bisogna accettare la sfida di un continuo smarrimento. Una figura a me cara è in questo senso il pittore Giorgio Morandi; la sua arte imperturbabile e quasi francescana, infinite variazioni senza mai ripetersi. Invece, su quello che succede oggi nel cinema, ho un discreto scetticismo. Per questo ci vado poco. Mi hanno influenzato autori che appartengono al passato. Non posso dimenticare i portoghesi João César Monteiro e Manoel de Oliveira, o l’ultimo Jacques Tati, da Playtime in poi: inarrivabile. Ma anche Franco Piavoli, Augusto Tretti…
Per concludere: come inviteresti al tuo cinema? Avresti poi dei consigli per dei giovani aspiranti film-maker?
Partirei sconsigliandone la visione, innanzitutto. Se davvero ci si volesse addentrare in questo tipo di cinema, si sappia che non ci si può aspettare qualcosa di certo. A chi invece si approccia per la prima volta alla regia, il mio suggerimento è di acquisire conoscenza e abbandonare la smania di azione. Nella vita di ognuno c’è un’importante fase di studio e selezione. Di esperienza. Si analizzino autori come Ludwig Wittgenstein e Thomas Bernhard. Io mi sono preso molto tempo, ho iniziato a fare cinema tardi.
Ma sapevi che saresti divenuto regista? E a quando risalgono i tuoi primi film?
Preferisco riferirmi alla mia filmografia dal 2011, l’anno di Magog. Prima di allora vi è stata una serie di film che poi ho disconosciuto. Lavoratori preparatori, ma ingenui sotto molteplici aspetti. L’unico che forse avrebbe meritato interesse è Movere Educere Biliardo, girato in America ma andato perduto. Ho scritto poi due romanzi, un lavoro che mi ha portato via otto anni. Romanzi apparentemente illeggibili, la cui fruizione è ostacolata dalla dilatazione del naturale tempo di lettura. La comprensione può avvenire solo a seguito dell’acquisizione di un sistema di lettura. Il mio testo è un sabotaggio continuo.
Quest’idea di sabotaggio ritorna anche nei tuoi film?
Nei film vi sono interessi di altra natura. In passato è capitato che mettessi dei tranelli dentro alcuni lavori. Ma in questo momento sto cercando di disabituarmi continuamente. Sto ora lavorando ad un processo di semplificazione, o almeno, è la direzione che La casa dell’Amore ha preso. Sono curioso di vedere cosa si dirà e che vita avrà.
Quando lo vedremo? A FilmMaker 2019, forse?
La casa dell’Amore è finito da poco, uscirà nel 2020, ma non sappiamo ancora dove sarà presentato. Ci stiamo lavorando…

Per la filmografia completa di Luca Ferri e molto altro, si rimanda al suo sito web.
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