
Vita terrena di Amleto Marco Belelli – L’assenza del divino | Torino 40
Io non sapevo chi fosse il Mago Otelma. O meglio, il nome mi era noto, ma a stento avrei saputo dargli un volto, avere anche la minima percezione del suo senso. Il ricordo della sua sagoma tremolante, frazionata dai raggi catodici a cavallo del nuovo millennio, la voce confusa dall’ennesimo talk-messinscena, e ancora forse, più recentemente, qualche sermone allucinato, spezzato dal petulante contraddittorio della solita trasmissione di Radio 24. D’altronde lo si incontrava solo lì Otelma, in quei luoghi in cui si celebrano le grandi liturgie del nazional popolare: seduto dal parrucchiere unisex, in coda sulla tangenziale all’uscita da lavoro, nel tinello aspro di qualche anziana parente. Non c’è alcun tipo di snobismo, ma solo franca ignoranza e distrazione.
Luca Ferri riesce a estrarre dalla chiassosa amalgama della cultura televisiva e gossippara nostrana un ritratto perfetto e coerente di un uomo (e del suo personaggio). Lo fa in Vita terrena di Amleto Marco Belelli, in arte – appunto – Divino Otelma. Un Autoritratto quasi, perché, nel rispetto dello stile del regista, la sensazione è che sia lo stesso Otelma a presentarsi, a interloquire non solo con Ferri, ma con lo spettatore e sé stesso attraverso i meccanismi impersonali del film. Il soggetto, le chiamate, gli audio di WhatsApp, la struttura e il montaggio assumono senso solo se messi in relazione, nell’ormai predicibile gioco-manifesto strutturalista di Ferri: e a buon ragione, cosa c’è di più vuoto e meno autonomo di un’icona televisiva, appiattita sui suoi stereotipi?

Vita terrena di Amleto Marco Belelli ha appena finito il suo primo giro di proiezioni a Torino, dove è fra i più attenzionati nel Concorso Documentari Italiani al 40esimo TFF. Dopo la conclusione della trilogia dell’appartamento, sullo studio del rapporto fra individuo e spazio abitato, Ferri continua il suo nuovo percorso teorico e filmico sull’assenza. Il ciclo, inaugurato con i corti Sì (2020, presentato in Orizzonti cortometraggi a Venezia77) e Mille cipressi (2021, presentato e vincitore al 67esimo Festival di Oberhausen, prima italiana a Pesaro FF57), rispettivamente uno slancio ispirato intorno alla memoria di un suicidio e uno studio del concetto di tomba entro lo spazio architettonico, è dunque arrivato a metà dell’annunciata pentalogia.
In questo film la prima assenza che si nota, dopo gli esiti prepotentemente autoriali dei due corti sopracitati, è quella del regista stesso. Luca Ferri assente, perché il ruolo del regista si limita a quello di attuatore supremo, progettista di una struttura autonoma e dunque tanto indifferente al suo creatore quanto, al contempo, replicabile da altri. Tutto questo di nuovo. Sì, perché lo schema non è che la riproposta di quanto visto in Pierino (2018), ovvero il ritorno periodico di uno sguardo apparentemente asettico (in inquadratura fissa) su un soggetto nella sua dichiarata quotidianità. Ma questa volta c’è stata una variazione: la pandemia ha probabilmente stravolto i programmi originali di Ferri sul film, ma ha esasperato i meccanismi della sua struttura. C’è dunque uno scarto da Pierino. Il corpo principale del film si compone di estratti da 52 chiamate registrate via Skype, avvenute nell’arco di più di un anno, da marzo 2020 a luglio 2021, quasi tutte con la medesima inquadratura di Otelma inturbantato e circondato da oggetti rituali o memorabilia. Dopo il regista e la sua troupe, viene meno anche la macchina da presa, il medium deputato.
Provando a prescindere da questo snodo concettuale, quasi fortuito ma che impregna le molte riflessioni sul cinema ai tempi della pandemia, e retrocedendo alla originale intenzione di Ferri di approcciarsi al soggetto, la vera assenza è probabilmente quella connaturata al concetto di divino. Otelma, se ci si persuade dei suoi dogmi, è inattingibile, e con le sue parole e i suoi postulati trascende il tempo, la terra stessa. E’ immanente soltanto grazie e rispetto al video: il film prova a coglierne l’essenza terrena, a farsi reliquia.

E lo fa senza rischiare la pretesa di uno sguardo completo, senza il minimo intento didascalico e documentaristico. Cesellare da una moltitudine incalcolabile di ore di girato, accumulate da decine di videochiamate, tessere accostabili in ordine cronologico, nominate singolarmente, per conferire chiarezza e solennità esige un grande lavoro di cinema. In questo Ferri è accompagnato dal talento di Andrea Miele, montatore e per forza secondo sceneggiatore del film. Il secondo fattore della risulta è abbastanza ovvio: il tempo. Si riesce a superare la maschera televisiva di Otelma grazie al tempo che gli è concesso, per presentarsi allo spettatore e, soprattutto, avvicinarsi progressivamente e più intimamente al punto di vista su di lui: tutto si dipana senza scandalo, senza l’assurdo e il buffo, gli aneddoti diventano epifenomeni, i video di Otelma per Genova sono le tappe di un pellegrinaggio cerimonioso, si è ospiti nella “veneranda casa madre”.
Alla fine si tituba, si vacilla sarcastici sull’orlo del mistero divino, che comunque questo film non voleva sciogliere. Lo dice anche Otelma, “la vita terrena è una delle tappe dell’esistenza, non necessariamente la più importante”. Se ancora dunque non avessi capito chi è il Mago Otelma – esoterista, filosofo con otto lauree, dio incarnato, teurgo di Elios e fondatore della Chiesa dei Viventi – potrei dire di aver conosciuto Amleto Marco Belelli.

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