
Il Testamento di Deflorian/Tagliarini in Triennale
Nel mese di ottobre la Triennale Teatro dell’Arte ha dedicato tre appuntamenti a Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, che hanno portato in scena Rewind – Omaggio a Cafè Muller (di cui potete leggere qui), Reality e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni. Quest’ultimo lavoro ha vinto nel 2014 il premio Ubu come migliore novità italiana, vedendo aggiungersi al duo collaudato Deflorian/Tagliarini gli attori Valentino Villa e Monica Piseddu.
Tutto parte da un’immagine, tratta da un libro di Petros Markaris (L’esattore, pubblicato nel 2011 per Bompiani): quattro pensionate greche vengono trovate morte in un appartamento di Atene, sul tavolo solamente una bottiglia di vodka, dei sonniferi e una lettera. La crisi economica non ha dato loro altra scelta, se ne sono andate per non dare altre preoccupazioni. Anzi, per non darci altre preoccupazioni, a noi, che restiamo fuori da questo interno di silenziosa sofferenza e possiamo capire solo in parte, possiamo immaginare ma fino a un certo punto, confrontare sì, ma non del tutto. Mettere in scena, possiamo?
Questo si chiedono i quattro attori sul palco, trainati dal primo monologo di Daria Deflorian, che esordisce dicendo: ci dispiace, ma questa sera non va in scena nulla, ci abbiamo provato ma non siamo riusciti. Ed è talmente convincente che qualcuno tra il pubblico per un attimo sembra crederci, si guarda intorno spaesato, tossicchia imbarazzato, che insomma il biglietto allora me lo devono ridare…
Abbattuta ormai la quarta parete, dal palco si comincia a raccontare quella che sarebbe dovuta essere la messa in scena non messa in scena: le riflessioni sorte durante le prove, i dubbi e le difficoltà nel rappresentare questa morte così tragica e al contempo così lucida, ma anche pensieri e ricordi personali, veri o fittizi, degli attori.
Immaginare cosa voglia dire decidere di uccidersi perché non si hanno più i soldi per pagare affitto e medicine, perché in un paese dove il sistema pensionistico è crollato di fatto essere un pensionato vuole dire essere un peso per lo Stato, perché allora forse è giusto andarsene e finirla così, tutte insieme, quattro amiche senza figli e senza futuro.
Immaginarlo, e cercare di trovare dei gesti che possano rappresentarlo su un palcoscenico, delle azioni che in qualche modo condensino il tutto, senza scadere nella banalità o nella facile retorica. I quattro attori scelgono così di parlare della crisi greca senza che si sentano i rumori di Atene in tumulto, senza che si vedano le fila di negozi chiusi, con le saracinesche abbassate e i cartelli “vendesi”, ma solo spostandosi diametralmente da una parte all’altra dello spazio scenico, lasciato volutamente il più vuoto e scarno possibile.
E intanto vengono provate davanti al pubblico alcune scene di quello che sarebbe potuto essere lo spettacolo – chissà se dopo quei bicchieri di vodka è venuto loro da ridere, lì a letto ad aspettare la morte, stese una accanto all’altra come ragazzine, o se magari l’unico rimpianto è stato quello di non aver mai imparato a ballare il sirtaki – tanto che le risate (più o meno amare) scappano fuori davvero, e ad un certo punto non si sa più bene se si ride per le quattro pensionate greche o per questo strambo gruppo di attori che si perde nel tentativo di rappresentarle.
Dalla Grecia si passa infatti all’Italia, e poi di nuovo all’appartamento ateniese, al qui e ora dello spettacolo, al tempo delineato dei fatti di cronaca e a quello indefinito delle considerazioni personali, in un continuo mescolarsi di piani narrativi che volutamente accompagna e fa perdere lo spettatore tra le mille sfumature di un tema tanto complesso quanto attuale.
In chi scrive, risuona in testa la canzone Il Testamento di Appino: «Ho scelto tutto quello che volevo fare/e ho pagato ben contento di pagare/ perché la scelta in fondo è l’unica cosa/ che rende questa vita almeno dignitosa».
Il carico morale del suicidio viene però appena sfiorato, “è un gesto politico” sostiene uno degli attori “la vita non è solo l’aspetto economico” dice un altro, ma non si giunge mai a uno scontro di opinioni: non è indagato il diritto o il non diritto alla morte quanto più il diritto (e la difficoltà) di rappresentare la morte. E cos’è la morte, voluta o non voluta, per scelta o per disgrazia, se non un salto nel buio?
Questa è la conclusione a cui giungono gli attori, che indossano esplicitamente anche i panni degli autori, questo è il gesto, l’unica azione che si può mettere in scena.
Così, piano piano, il racconto viene riportato sul piano dell’immagine da cui è partito, e dalle quinte vengono portati in scena un tavolo, una bottiglia di vodka e una boccetta di sonniferi.
Una volta costruita la scena, descritta con minuzia di dettagli sin dall’inizio dello spettacolo, i quattro attori cominciano a preparare, meticolosamente, la sua scomparsa: tavolo, sedie, bottiglia, bicchieri, ogni cosa viene via via coperta da un tessuto nero aderente.
Poi è il turno degli attori stessi, che affidano gli ultimi pensieri dei loro personaggi alla lentezza dei movimenti necessari per rivestirsi completamente di nero: gonne, calze, guanti, passamontagna.
Non serve altro, è tutto pronto, i profili delle persone e degli oggetti sul palco si intuiscono appena, confondendosi nel nero del fondale. O nel nero della crisi, economica e non solo, abisso di disperazione senza colori. Rimane solo una luce al neon, che pende dall’alto, mentre l’intera platea trattiene il fiato, in attesa.
Buio, si salta
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