Rumba di Ascanio Celestini – San Francesco si fa spettacolo
Verbum caro factum est. La parola si è fatta carne. Le note parole del prologo del Vangelo secondo Giovanni ben riassumono l’intento dello spettacolo RUMBA. L’asino e il bue del presepe di San Francesco nel parcheggio del supermercato di Ascanio Celestini: fare memoria della nascita di Cristo attualizzandola nel 2023, ottocento anni dopo la prima attualizzazione a cura di San Francesco nel 1223 a Greccio. Non stupisce quindi che l’anteprima milanese dello spettacolo – che torna al Carcano nei prossimi giorni, rientrando nell’ambito del programma di eventi a cura del Comitato nazionale per l’ottavo centenario della prima rappresentazione del presepe – sia andata in scena al Piccolo Strehler proprio la sera dell’antivigilia di Natale.
Francesco, al ritorno dalla Terrasanta, desidera rivivere Betlemme. Non gli basta rivederla con gli occhi della mente, cioè il ricordo, bensì vuole vederla di nuovo con gli occhi del corpo: agire la memoria di quei luoghi e dell’evento della nascita di Cristo. Lo fa in modo semplice, evocando lo spazio vuoto del teatro, riempiendolo con l’asino, il bue e la mangiatoia. Così Betlemme può essere ovunque, come luogo nel cuore di chi ci crede, oltre le brame di conquista e possesso di una Terra che continua a essere vittima di violenza. Questo lo spunto, suggerito dal Comitato di Greccio 2023, da cui è partita la riflessione di Celestini che ha portato alla luce il terzo capitolo della sua trilogia (Laika e Pueblo i due precedenti) che vede come protagonisti gli invisibili. Il primo presepe francescano dal piccolo borgo medievale di Greccio si sposta nel parcheggio di un supermercato della periferia romana frequentato da barboni, immigrati, emarginati: al centro non l’asino e il bue,ma Ascanio Celestini e Gianluca Casadei che intrecciano con parole e note musicali la storia del povero (per scelta) a quella dei poveri (spesso senza scelta).
Il racconto di Celestini prosegue rapido e concitato per condensare in poco meno di due ore tutte le parole e le storie: la vita di San Francesco si mescola con le vite degli abitanti del parcheggio del supermercato, lasciando poco spazio all’approfondimento del significato del presepe francescano. Come per gli aedi greci accompagnati dalla lira, la narrazione viene scandita da formule ripetute e dalle azioni del performer che rimane quasi per tutto il tempo in piedi, sedendosi solo per evidenziare il cambio scena. La patina romanesca nell’italiano di Celestini comunica immediatezza e famigliarità con gli abitanti del parcheggio. Il performer incarna così la figura del Santo che non si è limitato a porsi in modo caritatevole verso i poveri, ma ha voluto essere anche lui un uomo senza posizione sociale: non uomo teatrale che dà spettacolo, bensì uomo drammatico che si fa spettacolo. In questo farsi come risiede la potenza dell’identificazione mimetica che implica presenza e coinvolgimento della partecipazione emotiva. Così la parola del teatro di narrazione si fa carne. La memoria, del Santo e della sua rappresentazione del primo presepe, si trasforma in actio drammatica di nuovo vissuta: non è più solo una ripresentazione di un fatto accaduto in passato ma si fa evento nella sua accezione etimologica di e-venire, ovvero venire fuori, alla luce; l’evento è come se avvenisse di nuovo, si fa carne attraverso i corpi e può essere visto con gli occhi del corpo.
La componente performativa che rende possibile questa autentica riattualizzazione è veicolata non solo dai corpi dei performer sulla scena, ma anche da quelli degli spettatori che dovrebbero ricoprire il ruolo di testimoni che partecipano attivamente all’accadimento nel presente. La platea effettivamente ricorda i personaggi che abitano i presepi tradizionali: presi dalle proprie incombenze, si ritrovano quasi distrattamente catapultati nel bel mezzo dell’evento che accade, provando, loro malgrado, stupore e curiosità per quanto semplice e attuale possa rivelarsi una figura vissuta ottocento anni fa. L’ampio e distante palco dello Strehler crea un vuoto che le parole non riescono sempre a colmare e non favorisce la vicinanza e il coinvolgimento più intimo. La parola ha il potere di farsi carne solo se sa essere accolta da interlocutori capaci di concentrazione e sincera attenzione.
Abbiamo messo da parte la lezione francescana: il farsi come è scomodo e impegnativo perché prevede una responsabilità di cui farsi carico. Temiamo la carne che non mantiene la sicura e comoda distanza della parola di cui preferiamo riempirci senza farla seguire da una pratica convinta e autentica: una parola inascoltata e logorata dalla mancanza di una reale riflessione su di sé. Il teatro contemporaneo non dovrebbe avere la presunzione di chi dichiara, quindi impone; il teatro dovrebbe tornare ad aspirare – cioè trarre a sé l’aria dilatando il respiro –per non salvare il presente a tutti i costi, ma accettarne il fallimento, per riscattarlo in quella dimensione possibile in cui coesistono memoria e attesa.
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