
Disincanto di Matt Groening – Situazioni che precipitano
Su Netflix, a distanza di un anno, Disincanto, serie animata di Matt Groening, conclude la sua prima stagione (composta da 10 + 10 episodi): protagonista Bean (diminutivo per Tiabeanie), principessa dalle spiccate doti alcoliche, cresciuta senza la madre, pietrificata per sortilegio. Il padre, Re Zog di Dreamland, non ha alcuna capacità di comprenderla, è superficiale, ubriaco del suo stesso potere. A far compagnia a Bean, un elfo (appunto, Elfo) e un demone, Luci.
Se la prima parte ha accolto pareri contrastanti, questa seconda non farà diversamente: la serie mostra una strategia narrativa complessa, molto diversa da I Simpson e Futurama, in certo qual modo disattende delle aspettative. Groening inserisce una vera e propria progressione narrativa, cioè una trama, sconfessando il modello antologico che lo ha reso famoso (gli elementi di “progressione” nelle serie precedenti sono assolutamente insufficienti a tenere le fila, pensiamo a come Fry in Futurama ricominci quasi sempre da capo nel suo corteggiamento a Lela). La prima stagione ingannava lo spettatore fino al paio di puntate conclusive, poiché il gioco sembrava il medesimo di sempre (eccetto per la quest della fiala dell’immortalità), concentrati in una ventina di minuti la rottura e il ripristino dell’equilibrio: poi, la rivelazione, il click che fa rileggere l’intero mondo di Disincanto, ciò che estrapola Dreamland dal fiabesco per una dimensione storica o pseudo-storica: [spoiler fino a fine paragrafo] quello che era dato per certo, e cioè che la regina Dagmar fosse stata pietrificata da un attentatore, è in realtà una bugia. Quando la regina viene rivivificata da una fiala contenente una goccia di sangue elfo, la verità viene a galla: lei stessa avrebbe tentato di pietrificare Zog, per regnare liberamente. Perciò, rinata, Dagmar prepara nuovamente la pozione e pietrifica, questa volta, l’intera città, alla maniera di Fiordirovo, fuggendo con Bean nella città dalla quale proviene. Cut: fine prima parte, nell’apice del patos.
La seconda parte, dopo i primissimi episodi di “prolungamento” narrativo della prima (con una curiosissima catabasi), ricade nella formula dell’episodio autoconclusivo (o pseudo), come se la narrazione – pur di grandissimo impatto – in realtà non fornisse elementi a sufficienza per durare. A un certo punto, chiaramente, Dreamland [spoiler] ha da essere s-pietrificata, e in questa rottura dell’incantesimo c’è tutta una proposizione meta-cinematografica, perché è il momento esatto in cui la serie torna alla sua natura (apparente) antologica; perché le condizioni di partenza (caratteri, topografia, personaggi) sembrano ricuperati. E invece, ancora una volta, Groening fa precipitare il suo racconto, in primo luogo alludendo a una eterogeneità di situazioni fantasy, e non più al “semplice” fiabesco di riferimento ([spoiler] si parlerà di stience); in secondo luogo perché ciò che sembrava darsi concluso all’inizio della stagione è in realtà ancora clamorosamente aperto, e il salvataggio di Bean all’ultimo secondo non può che essere affidato a un solo personaggio, ancora.
Insomma, Disincanto, che soffre al massimo di cadute di tensione – mai, sia chiaro, di perdite qualitative – non è soltanto un’altra serie animata alla Groening, ma è un discorso che Groening porta avanti tra fiducia nei propri modelli di riferimento e tentativo di avviare un dialogo auto-critico. Il tutto, ovviamente, all’insegna del suo modus per eccellenza, la situazione che precipita con velocità della luce, e che può recuperarsi solo in parte, a costo di perdite.
La serie è stata, fortunatamente, visto il cliffhanger finale, rinnovata per altre due parti (seconda stagione) tra 2020 e 2021.
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