
Il ritorno al gotico: “Il signor diavolo” di Pupi Avati
Pupi Avati è uno dei registi più longevi del cinema italiano. Il suo esordio è datato 1968 con Balsamus, l’uomo di satana. Nei suoi oltre cinquanta anni di carriera, l’autore emiliano ha attraversato con successo svariati generi, riuscendo sempre a rendere ottimi drammi e conflitti interiori, rendendo memorabili interpretazioni drammatiche di attori tipicamente comici, come Carlo Delle Piane, scomparso recentemente. L’ultima fatica di Avati è Il signor diavolo, tratto dall’omonimo romanzo, scritta insieme al fratello Antonio Avati e al figlio Tommaso Avati. L’opera, distribuita dalla 01 Distribution, ha fatto il suo ingresso in sala lo scorso 22 di agosto.
1952, Furio Momenté, giovane dipendente del Ministero di grazia e giustizia, viene inviato nel profondo veneto per indagare a proposito di alcune morti singolari, legate al sostrato oscurantista della popolazione; infatti il ministero, guidato dalla DC, teme la possibile perdita, in caso di sospettati legati alla Chiesa, di una delle proprie roccaforti elettorali. In viaggio, Momenté legge il verbale dell’interrogatorio di Carlo Giorgi, reo confesso dell’uccisione del coetaneo Emilio Vestri Musy, ma il movente ha dell’incredibile: Carlo afferma che Emilio fosse il diavolo. Nel paese non è l’unico a pensarlo. Circa un anno prima dell’incontro con Emilio, Carlo aveva sentito storie sulla sua famiglia, alcuni sostenevano che il ragazzo fosse stato concepito dall’accoppiamento tra Clara, la madre, e un verro selvatico, spiegazione di un’altra diceria, cioè che Emilio fosse deforme, in quanto dotato di una dentatura da maiale.

Il canovaccio è quello del thriller purissimo, con l’ulteriore eco della lezione del Dracula di Bram Stoker. L’ansia del mistero è caricata fino al finale, una lama di coltello fredda che colpisce secca, chiudendo con un colpo di scena riuscito. L’elemento del satanismo legato alla comunità rurale, in Italia introdotto nel thriller proprio dal maestro bolognese e dal suo gotico padano, unito alla tetra bellezza delle location, sono la verve di quest’opera. Nelle campagne sperdute e desolate, nelle foci solitarie, i bambini vagano alla scoperta della sessualità incontaminata, lontana dalla società dei consumi, ma in lotta con forze primordiali e sconosciute, da temere e tenere a distanza.
Nonostante gli elementi interessanti, il film presenta delle forti debolezze: la scrittura è troppo verbosa, i tantissimi nomi da tenere a mente si perdono a volte nelle pieghe del racconto, rendendo caotici alcuni passaggi fondamentali della storia.

L’interpretazione dei due protagonisti Gabriel Lo Giudice e Filippo Franchini non è entusiasmante, in generale per i tanti interpreti giovani, più alto il livello dei più anziani, in particolare Chiara Caselli, interprete di Clara Vestri Musy, si contraddistingue per l’accattivante interpretazione di una femme fatale d’altri tempi, dal forte accento veneto.
A livello della fotografia, sembrano esserci delle incertezze: passaggi un po’ forzati, sequenze d’ambientazione notturna non ben riuscite. E incerto, in alcuni punti, sembra l’uso degli effetti speciali, particolarmente nella resa del sangue (ad esempio quando fuoriesce dalla culla). Ottimi invece gli effetti speciali artigianali, realizzati dal maestro, e veterano del genere, Sergio Stivaletti.
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