
Breve guida alla visione di Brightburn
Quando lo scorso dicembre fu rilasciato il primo trailer di Brightburn, l’associazione tra il film e il licenziamento di James Gunn (qui in veste di produttore esecutivo della pellicola) è stata non solo spontanea ma praticamente obbligatoria. Certo, la lavorazione è iniziata almeno un anno prima, quando ancora Gunn non era in odore di licenziamento, eppure le coincidenze erano troppe e troppo azzeccate: perché Gunn dopo essere stato (seppur per poco tempo) licenziato dalla Marvel ha annunciato un film nel quale il superumano è riproposto in chiave horror? E perché, guarda caso, questo “nuovo” personaggio ha così tanti riferimenti alla DC, casa editrice di cui da lì a poco Gunn ne avrebbe annunciato un film da lui diretto? Come dicevamo, si tratta solo di coincidenze e forse niente di più, ma sono comunque quelle coincidenze che rendono “il film dentro il film” ancora più gustoso. Guardare Brightburn con un velo di complottismo hollywoodiano ha senza dubbio il suo fascino ma noi non siamo qui (solo) per fare della dietrologia fine a sé stessa, bensì per parlare di un prodotto che è senza dubbio inedito sotto molti aspetti ma anche inaspettatamente immaturo in molti altri. Come guardare e giudicare Brightburn alla fine spetta al pubblico ma di seguito si propongono alcuni consigli in base ai vostri gusti e/o premesse di visione. Fate la vostra scelta:

Come cinecomic
“Cinecomic”, parola, lo ricordiamo, squisitamente italiana, sta via via sempre più sostituendo, almeno a livello di immaginario collettivo, il termine “blockbuster”. Ma si tratta di una sostituzione in parte erronea e fuorviante, riprova del fatto è che per esempio non tutti i cinecomic siano blockbuster (Era mio padre, Sam Mendes – 2002 o ancora La vita di Adele, Abdellatif Kechiche – 2013) e non tutti i blockbuster siano cinecomic. Un cinecomic per definirsi tale deve avere la seguente caratteristica: essere dichiaratamente ispirato o basato su un fumetto. Brightburn finge appena di essere un blockbuster ma mette in chiaro fin da subito di essere almeno in buona parte un cinecomic, sia pure citazionista. Fin dai trailer era apparso evidente come produttore e scrittori volessero partire dalla mitologia di Superman per elaborare una storia nuova e coraggiosa. Se infatti in letteratura abbondano “Supermen” distopici e malvagi e non manchino versioni horror di molti personaggi classici (cercatevi la trilogia del “Batman Vampiro” e no non stiamo parlando di Robert Pattinson), una versione così cupa dell’ultimo figlio di Krypton non l’aveva ancora immaginata nessuno. I riferimenti alla letteratura fumettistica sono molteplici, dal nome del protagonista Brandon Breyer, evidente citazione all’abitudine di Stan Lee di creare personaggi con le iniziali identiche, passando per la ricerca di un simbolo fino alla costruzione di un volto, cioè una maschera, assolutamente mostruosa e che è quanto più lo allontana dalla controparte letteraria originale. Si nota poi nella fotografia la scelta di voler omaggiare Man of Steel di Zack Snyder, con un filtro che mette in risalto le tonalità opache dei colori chiari, e anche nelle musiche non manca qualche accenno al lirismo snyderiano, salvo poi essere stroncato brutalmente dalla virata tetra che il film assume quasi subito.

Come horror
Se c’è qualcosa di veramente spaventoso in Brightburn lo si deve principalmente a due fattori: Jackson A. Dunn, un convincente e disturbante protagonista, e ai costumisti che hanno ideato la sua maschera. Non era facile costruire un horror partendo da dei poteri che anche il più vecchio degli spettatori assocerebbe, non a torto, a speranza e potenza. Brandon non è portatore di speranza né tantomeno la sua potenza è spettacolarizzata benché siano chiari fin da subito quali siano i suoi poteri. Si sa che può fare delle cose e queste cose ci vengono mostrate attraverso un organo particolare: gli occhi. Che siano gli occhi feriti e attoniti delle sue vittime, gli occhi purpurei che precedono un assalto o gli occhi della madre, Brightburn ci sfida il più delle volte a non distogliere lo sguardo dallo schermo e un paio di volte riesce pure a farci saltare sulla sedia. Ne risulta un horror divertente e a tratti sinceramente inquietante ma ben poco innovativo, dove alla fine il topos horrorifico esplorato è il classico “bambino inquietante fuori controllo”. Ma non aspettatevi il nuovo The Ring, ecco.

Come film drammatico
Si parlava prima degli occhi della madre e la madre in questione è una splendida e in formissima Elizabeth Banks che qui interpreta Tori, una donna di campagna ottimista, amorevole e intraprendente destinata a fare i conti con la terribile realtà dei fatti. È semplicemente adorabile assistere al contrasto tra la fiducia sconsiderata di Tori e la malignità del figlio adottivo e questo contrasto e il vero motore di tutto il film, un motore che risulta essere pesantemente ingolfato da una scrittura dei dialoghi veramente horror e a tratti imbarazzante. La carica drammatica poggia tutta sulle spalle della Banks che qui ci regala una delle sue più convincenti e complete interpretazioni e che nel finale raggiunge vette altissime (spoiler: non solo metaforicamente). Nel suo voler essere un qualcosa a metà tra esperimento e citazione, Brightburn non brilla particolarmente come novità né come riproposta ma riesce comunque a ritagliarsi un angolino tutto suo di timida originalità che gli vale sicuramente la candidatura quantomeno a cult-movie.

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