
To die or not to do diet in Santa Clarita
Per sentire la prima volta la parola “zombie” s’è dovuta aspettare la terza stagione: il creatore di Santa Clarita Diet Victor Fresco ha fin da subito remato (o tentato di remare) contro lo stereotipo del non-morto ambulante e privo di linguaggio (inteso latamente), nonché sostanzialmente cattivo, perché cannibale (anche se tecnicamente non lo è, forse). Non è di certo cosa del tutto nuova, se a mente il lettore ha Scooby Doo, tutto uno smascherare come controindicazione a concetti troppo easy di umanità e mostruosità, o altre serialità, vietata ai minori come In the flesh, esempio strabiliante di prodotto sui non-morti: l’idea di base è la riabilitazione dello zombie all’interno della società, dopo dovutissime cure degli aspetti “tradizionali” (la serie è purtroppo inedita in Italia, ma si trova facilmente in inglese).
Di Santa Clarita Diet se n’era parlato un anno fa, data anche tra le serie migliori del 2018. Poco spazio in entrambi i casi, ovviamente. Nel senso che la serie non può dirsi complessa, quando la complessità è anche una certa distanza tra il fruitore medio e il prodotto. Di fatto è molto semplice, per lo meno nelle sue coordinate fondamentali: Drew Barrymore è Sheila, svegliatasi non-morta (il termine usato più frequentemente è un-dead) dopo una sessione di vomito intensa; è moglie di Joel (Timothy Oliphant). Hanno una figlia, Abby (Liv Hewson), sedicenne tutt’altro che il ritratto della liceale americana – antifrasi dello stereotipo che la rende essa stessa stereotipo, purtroppo (significa: prevedibilità). L’amico di lui (friendzone alert) è Eric (Skyler Gisondo), personaggio radicalmente prevedibile: intelligente, timoroso, sfigatello eccetera. Si immagini la situazione: Sheila deve mangiare carne umana per sopravvivere; Joel deve aiutarla perché (e si legga sottolineato) la ama; Abby non può che scoprire presto del segreto – per il cambio improvviso di carattere (la morte libererebbe gli istinti) e perché in congelatore ci sono dita umane; su Eric si riversa praticamente ogni cosa che capita ad Abby.
Dunque uno schema semplice, che va preservato in quanto nel gioco apparente politically correct (spesso ribadito da battute sul rispetto verso tutte le diversità) non c’è spazio per ammaccature, ombre. Ma in questa assenza di complessità (che è forse lacuna di regia ma non di sceneggiatura, perché i dialoghi sono frizzanti, spassosi, certo di scuola americana) in realtà emergono grandi problemi etici, irrisolvibili; quale sia la cosa più giusta, se è indiscusso il fatto che Sheila debba mangiare, in qualche modo, e questo la porti a uccidere, ma uccidere è sbagliato da principio e il male minore, la giustificazione diviene di un’etica secondaria: un rapido giudizio su chi meriti o meno di morire, sulla base delle azioni e delle opinioni (i nazi vanno bene, persino i nazi in sedia a rotelle, così uno xenofobo, oppure un’infermiera non perfettamente in linea con la deontologia del mestiere) e il gioco è fatto. Non del tutto, perché anche il morso in assenza di consumazione (un assaggio e basta) non è corretto, perché in grado di dare, riducendo, l’immortalità. Il bite non sembrerebbe del tutto etico, non si sa, se è la morte a dare significato alla vita e quindi “mordere” qualcuno diventa una minaccia non ai viventi ma a un modello, a una cultura, di vita: “Venderebbero carne umana al supermercato!” si dispera Joel. Ma risponde Sheila: “è quindi?” (sui dilemmi etici ragiona bene – e con più profondità, forse – The good place, già alla terza stagione ma su Netflix a due dal 26 di questo mese). Il tutto, condito dalla più umana delle questioni, la ricerca di uno scopo.
Per non dimenticare le questioni religiose (ci sarebbe chi crede il non-morto un risorto). Andiamo però oltre per non complicare il quadro.
Rispetto alle prime due stagioni troviamo in questa terza una variabile interessante (oltre l’esistenza di “altri” non-morti): l’entrata in gioco dell’ordine dei cavalieri di Serbia, antichissimo, unico a conoscenza dell’epidemia e a statuto in campo per contrastarla. Quello che però sembrava un “grande” ordine è del tutto ridicolizzato; così anche l’anti-ordine dei cavalieri, cioè l’ambasciata serba (ergo: estensione del governo serbo), interessata a ben altro. Il che rende il comparto dei villain un po’ insufficiente. Tutti questi elementi, sebbene vivacizzino decisamente la scena, sembrano confondere la trama (già ricca), illudendo lo spettatore di sviluppi possibili solo in una quarta stagione. Non si dica, davvero, di più. Solo che il punto forte è senza dubbio la comicità (forse più emancipata nelle prime due stagioni) e un certo modo di divincolarsi dalle situazioni complesse, cioè il risolvimento della trama che immerge la serie nel genere comedy, tirandolo via dal thriller pseudo-apocalittico.
Non si è a conoscenza dei piani di Netflix, pur con un finale aperto. Ebbene, aspetteremo. Un ultimo avviso: la serie va vista in inglese, non solo per il doppiaggio frettoloso, ma per l’impressionante densità dialogica.
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