
Macchine e automazione della visione: “Cam”
Il cinema horror ha sempre mostrato una peculiare tendenza all’elaborazione del materiale culturalmente traumatico. Come ha dimostrato in un’analisi brillante Adam Lowenstein, una delle caratteristiche peculiari del genere è quella di essere costantemente attraversato dai nodi problematici di una cultura e – di conseguenza – di poter essere letto come una manifestazione di ansie inespresse e problemi repressi. Così, per fare un esempio fra i molti possibili, il revival della figura del vampiro negli anni Ottanta – periodo nel quale assume la fisionomia di una vittima, una sorta di malato terminale – viene spesso letto in congiunzione con il primo diffondersi dell’epidemia di AIDS.
Negli ultimi decenni, poi, buona parte del genere sembra aver cercato di ragionare sulle modalità con cui le nuove tecnologie della comunicazione e della visione hanno influito sulle nostre esistenze. Rimane emblematico, in questo senso, il sottotesto tecnofobo che pare attraversare già diverse pellicole classiche del cosiddetto J-Horror, come Ringu (Nakata Hideo, 1998) o Kairo (Kurosawa Kiyoshi, 2001). Su questa stessa linea pare collocarsi anche Cam (Daniel Goldhaber, 2018), film recentemente distribuito su Netflix che trasforma il mondo delle camgirls in un universo perturbante non privo di accenti lynchiani.
Tolto il contesto familiare della protagonista (con l’annesso momento di trauma/scoperta che l’amata figlia si dà al sesso online per mantenersi), che rappresenta la parte meno interessante del film, ciò che veramente colpisce in Cam è il modo in cui alcuni aspetti cruciali della medialità contemporanea vengono messi a tema e problematizzati. Il primo momento inquietante del film si consuma quando la giovane Alice si rende conto che – nonostante non sia online – qualcuno di identico a lei sta trasmettendo uno show dalla sua stanza.
Questa oscura presa di coscienza innesca una catena di paradossi che giungono presto al parossismo. Per venire a capo di questo annodarsi di temporalità può essere utile ricordare, come fa Simone Arcagni in un suo libro recente, che le macchine della visione ed i sistemi mediali si stanno progressivamente svincolando dalla presenza umana: macchine che vedono ed agiscono in autonomia sono ormai una realtà di cui è sempre più necessario tenere conto. A maggior ragione se esiste perfino un social network (Etern9) in cui una nostra controparte digitale è in grado di condividere contenuti esattamente come faremmo noi, anche dopo la nostra morte.
Il vero interesse di un film come Cam sta insomma proprio nel suo modo di declinare questo tema in senso orrorifico: la ricerca di Alice per tentare di venire a capo della faccenda le svelerà – ad esempio – che i morti camminano in mezzo ai viventi, ma sarà in ultima analisi infruttuosa. Il suo percorso di scoperta (che sarà anche in qualche modo scoperta di sé) si rivelerà uno sforzo investigativo futile: nel finale, sarà solo facendo i conti con la propria immagine, in una moltiplicazione vertiginosa di superfici riflettenti, che Alice potrà riconquistare la propria identità (digitale).
Rimane da capire come si sia innescato il paradosso della separazione fra corpo e avatar digitale. A questa questione, però, il film non dà risposte definitive, come se la diagnosi della condizione del singolo nella mediasfera contemporanea fosse ciò che conta davvero. D’altronde anche nella realtà di tutti i giorni siamo in qualche modo vittime di noi stessi e della nostra immagine: pur con le dovute cautele è nei fatti condivisibile il giudizio di Han secondo cui tutto ciò che facciamo on-line è parte di una rete di (auto-)sorveglianza che contribuisce a definirci in quanto esseri perennemente connessi (ad altre esistenze digitali e alle macchine).
Così al nostro Io corrisponde (e si integra) una sorta di data-immagine virtuale, con la quale spesso ci dimentichiamo di dover scendere a patti. Forse è proprio su questo tema che conviene ragionare parlando di un film come Cam: il confronto finale fra Alice e il suo “replicante” può forse essere inteso come uno scontro frontale fra un sé e il suo avatar digitale. Non a caso quando la ragazza comincia a colpirsi in volto – innescando un meccanismo di disidentificazione rispetto al proprio doppio – la sua copia incomincia a sfaldarsi, proprio perché viene a mancare quel legame di gemellarità che in qualche modo l’aveva generata.
L’indagine di Cam si inserisce in un filone di horror emergenti di cui anche la teoria dovrebbe forse cominciare a tenere conto: la messa a punto della forma dello screencasting come nuova scrittura della paura in un film come Unfriended (Levan Gabriadze, 2014) sembra infatti rispondere al medesimo insieme di questioni. Se vogliamo comprendere in maniera più profonda alcune dinamiche fondanti del nostro tempo e del nostro rapporto con i media, vale forse la pena di tenere maggiormente in considerazione queste produzioni, solo apparentemente marginali.
Riferimenti
Simone Arcagni, L’occhio della macchina, Einaudi, Torino 2018.
Byung-Chul Han, La società della trasparenza, Nottetempo, Milano 2014.
Adam Lowenstein, Shocking Representation. Historical Trauma, National Cinema and the Modern Horror Film, Columbia University Press, New York 2005.
Davide Sisto, La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
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