
Il gabbiano autentico di Marco Sciaccaluga: Čechov mutilato
Dall’11 al 13 gennaio è andata in scena, presso il Teatro Fraschini di Pavia, la versione originaria e integrale di quello che, senza mezze misure, è considerato un classico del teatro moderno, nonché perno della poetica cecoviana: Il gabbiano.
Senz’altro non è usuale poter vedere rappresentato un testo tanto tortuoso e labirintico, e pur sfuggevole, nella sua versione originale: ad essere presentato nella versione italiana di Danilo Macrì è Il gabbiano così come andò in scena nel 1895 – clamorosamente naufragato sulle scene del teatro Aleksandriskij di Pietroburgo – senza tagli e senza ellissi, in quattro atti e con la galleria di personaggi al completo.
La sorte del gabbiano è la stessa dell’umanità: un volo spezzato, speranze tradite e aspettative infrante, mentre la vita, indifferente, scorre. Ricostruirne minuziosamente l’intreccio sarebbe un tentativo blando e inefficace: la trama cecoviana è sfuggente, stazionaria e monolitica; spesso alla stregua dei suoi protagonisti, incagliati nella retorica di parole a cui non seguono fatti e ristagnanti in monologhi ampollosi e rimbombanti. Effettiva protagonista, in sostanza, la malinconica sordidezza dell’esistenza umana. Čechov, difatti, concepisce il suo teatro come un diagramma di incontri, illusioni, addii; un ordito di emozioni effimere che straripano senza mai, d’altra parte, realmente capovolgere l’ordine immutabile dell’esistenza.
Il gabbiano di Marco Sciaccaluga è forse quanto di più alieno all’esperienza-Čechov. Si profila come un recupero rigorosamente filologico del testo originario (1895) e difatti, da questo punto di vista, poco o nulla gli si può realmente rimproverare. A partire dall’insipido e impeccabile affresco in cui è incastonato: il contesto scenografico, a cura di Catherine Rankl – sullo sfondo il lago e in primo piano il pontile che conduce alla dacia nei primi due atti; la sala da pranzo e il salotto nei restanti due – tradizionalista all’inverosimile, appare rassicurante, a persuadere dell’ineccepibile classicità della messa in scena.
L’altro elemento che Sciaccaluga sfrutta per gestire lo stato emotivo del pubblico è la musica, realizzata da Andrea Nicolini: un’incessante litania extra-diegetica che si vuol fare presaga di funesti accadimenti, metafora dell’agonia e dell’afflizione che costellano esistenze allo sfacelo. È il fitto tessuto di segnali acustici a scegliere turbamento o commozione, inquietudine o apprensione; a suggerire, appunto, un pathos altrimenti assente.
Il tutto prestabilito da una regia puntuale e ordinata che dispone volta per volta gli stati d’animo da recitare – per gli attori – e da sentire – per lo spettatore -, ricostruendo minuziosamente atmosfere presunte cecoviane.
Si badi però: esteriormente tutto funziona, fila senza intoppi. È persino scorrevole.
Solo manca il corpo a corpo con l’opera, è omesso l’inesauribile sottotesto: si tralascia l’approfondito scandaglio interiore in favore di un arido e sterile realismo esteriore. Manca in toto l’approccio introspettivo caro a Stanislavskij, il quale chiedeva di creare, non ri-creare, la vita del personaggio sulla base del testo, ma anche smarcandosi da esso. E così, sulla scena, pomposi ed enfatici, si muovono una sequela di manichini senza energia: i gesti sono esplicativi, i personaggi arrivano, ma restano in superficie, senza vita. Concertati corali, dialoghi e monologhi si susseguono macchinosi e artefatti, originando una riproposizione sempre fedele, ma mai realmente in the mood.
Ragionevolmente Čechov dovrebbe emergere nel frammentario disordine delle battute, nell’indefinitezza dei personaggi, nel gusto dell’indefinito; ritrovarsi nell’inautenticità delle vite che descrive. Le interpretazioni, al contrario, sono spente, più atte a render onore ad autentici e pedanti tecnicismi da accademia che a restituire gli entusiasmi, le cadute, gli spettri e le contraddizioni interiori dei personaggi.
Fra Kostantin e Nina (Francesco Sferrazza Papa e Alice Arcuri), giovani anelanti all’arte e all’amore, manca del tutto alchimia attoriale; atrofizzati in una partitura di gesti meccanici, non riescono a materializzare sulla scena quella non-energia peculiare del personaggio cecoviano, sempre sospeso fra l’ammaliante miraggio di un futuro radioso e l’ottuso rimpianto di un passato inerte e amaro. I lunghi e tortuosi monologhi di Trigorin (Stefano Santospago), afflitto e affascinante letterato dalla cui aura di celebrità Nina è stregata, fluiscono senza impaccio e senza spessore emotivo alcuno; quasi ci si dimentica del saggio medico Dorn (Roberto Serpi), filosofeggiante tombeur de femmes e unico vagamente in grado di leggere le tragedie che lo circondano; Medvedenko (Andrea Nicolini) e Maŝa (Eva Cambiale), il lamentoso maestro elementare e l’afflitta consorte, non risultano presenze organiche nel contesto corale; Arkadina (Elisabetta Pozzi), madre di Kostja chiusa in un frivolo egoismo, incarna nella sua interpretazione lo spirito dello spettacolo: tecnicamente – quasi – impeccabile, emotivamente nullo.
Personaggi, insomma, che riusciamo sempre a sentire e mai ad ascoltare.
Tutto impersonale e artificioso. Nulla da vivere, tutto da subire passivamente. Ecco, in fondo, cos’è questa versione integrale del capolavoro russo: un compito ben svolto, una lezione ripetuta a menadito. Un esame superato a pieni voti, terminato il quale non ricordiamo più nulla.
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