
Al Melato, Scandale rivisita Ruccello in un “Notturno di uomo con ospiti”
Il Piccolo Teatro Studio Melato si lascia abitare per tre giorni da “Notturno di donna con ospiti”: dal 26 al 28 ottobre viene rappresentato Annibale Ruccello, autore che Arturo Cirillo, protagonista della pièce, ben conosce filologicamente. Tutto lascia credere che si tratti di un’operazione culturale interessante: la scelta del testo è inusuale e intrisa di napoletanità, e il Melato salda una sinergia con l’Accademia “Silvio d’Amico”, aprendosi ad un giovanissimo Mario Scandale.
L’incipit sembra confermare le aspettative di una messa in scena fresca, personalissima e arricchita dal contributo prezioso di un Cirillo che questi temi mastica e interiorizza. L’ambiente è claustrofobico: tendaggi blu notte ricreano una sorta di scatola fuori dal tempo in cui a poltrone color pastello si affianca un mobilio posticcio dai toni accesi. Si innesca una prima dinamica quasi ipnotica, un’interazione tra spettatore e azione che solo il teatro può ricreare: in un silenzio tombale che si spalma su un bzzz elettrico dei canali non trovati, un cinquantenne solitario si trasforma in Adriana. E con ciò non intendiamo dire che si colora le labbra o indossa i gingilli: accade qualcosa, qualcosa di incomprensibile seppur visibilissimo, per cui i suoi arti, il busto, la postura, tutto in lui assume fattezze differenti. Non scimmiotta, non imita, eppure strappa risate che si amplificano nel denso mutismo generale, e sospiri stanchi insieme, quando nella solitudine della scatola anni ’50 spegne la candelina di compleanno.
E qui, purtroppo, la magia si conclude, per tornare in sparuti sprazzi sempre troppo brevi.
Chiunque abbia familiarità con la cultura partenopea e con la metropoli sul mare, si sentirà un po’ a casa: ci sono le inflessioni napoletane, rese comprensibili anche a scapito della viva lingua dialettale di Ruccello, e c’è l’afa, l’acqua, la cucina casereccia, i bisbigli del vicinato. La situazione narrativa è subito resa esplicita: in una quotidianità scandita dalla cura dei figli e dall’ordine maniacale della casa, tra giornate che sono “semp’ ’o stesso”, l’assurdo irrompe nella forma iconica del sogno.
E’ immediato sentirsi vicini ad Adriana: le televendite che propinano soluzioni facili e spargono false promesse, l’atteso “Seratissima” ad allietare una notte calda e troppo lunga, il ruolo socialmente rilevante della televisione come antidoto subitaneo ma inefficace per una casalinga che, nel suo eremo, sublima il bisogno viscerale di raccontarsi nella reazione all’unica voce che può sentire, quella che si propaga dallo schermo.
Quando la donna si addormenta, i “fantasmi del passato” tornano, ma non hanno nulla del dramma dickensiano. Compaiono ex abrupto, con soluzioni sceniche poco felici, e a singhiozzo ripercorrono una realtà che è distopica soltanto nei colori, rasentando un assurdo che mai sfiora il crinale della credibilità. L’imprevisto è già inverosimile: una sedicente azienda, in cui lavora anche qualche vecchia compagna di scuola, avrebbe organizzato una festa a sorpresa per il compleanno di Adriana che, scettica e perplessa, accoglie ospiti inattesi e vecchie fiamme in casa sua. Come un morbo, questi parassiti dell’inconscio ne rendono lapalissiane le paure e i tormenti: dopo aver dedicato una vita intera agli altri, Adriana quasi non sa più cosa dire di sé, ha smesso di conoscersi. Trova un senso alla monotonia che la attanaglia prendendosi cura degli altri e questa ostinata devozione ne mette a tacere i desideri e i bisogni.
Potenzialmente ci sono tutti gli spunti emotivi e narrativi per scuotere, per sfiorare la tragedia di una bocca cucita, della prigionia di una casa accogliente; di questo cervo sacro viene svelata ogni cosa, con cenni all’ invidia di una madre rancorosa e al vuoto incolmabile lasciato dal papà, e ancora l’incomunicabilità tra coniugi, i sogni di gloria calpestati dalla gravidanza, dal senso borghese di ospitalità, da una religiosità devota e opprimente. Nulla accade e tutto accade, fino a che la voce non è rotta dal pianto, e nell’indifferenza generale tutto ricomincia perché nulla è successo.
E davvero niente succede nella messa in scena: gli ospiti sono macchiette, figure di contorno caratterizzate solo in superficie per mezzo di una gestualità manieristica e canonica. I cambi di scena sono repentini e, ad esclusione di qualche momento italianissimo in cui Mina dice, dando voce alla festeggiata, «Io voglio vivere anche per me, scoprire quel che c’è», i presunti demoni sono intensi al pari di una sfera stroboscopica o di un lento sulle note di “Montagne verdi”. La dimensione onirica non contribuisce ad intensificare il peso di un passato che si dilata, e il sogno rimane fasullo, appiattito su un’emotività posticcia in cui le relazioni non giungono mai all’apice del climax, interrotte da cesure che spezzano il ritmo e impediscono alle interazioni di diventare credibili.
“Notturno di donna con ospiti” è una messa in scena didattica, un rifacimento macchinoso che non aggiunge molto allo stato dell’arte o alle intenzioni primigenie dell’autore. Viene da chiedersi quale tipo di sperimentazione sia stata fatta su un testo in cui il fulcro emotivo ruota in larga misura attorno alla ricostruzione di un rapporto controverso con le figure genitoriali, deliberatamente banalizzate e marginalizzate nell’adattamento al Melato: la mamma è un busto che cammina sulla sfondo mentre ne sentiamo le battute registrate, e il padre è una marionetta di dimensioni umane o una voce radiofonica fuori campo. E nonostante l’impeccabile interpretazione di Cirillo, la scelta di costruire uno studio di questo testo facendo transitare un uomo di mezz’età in un’emotività tipicamente femminile, appare immotivata. Se avete voglia di vedere l’attore nei panni di una donna, sperate che torni con il suo “Scende giù per Toledo”; e se percepite un’affinità con il drammaturgo napoletano, leggete il testo: gli renderete più giustizia.
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