
Alessandro Serra racconta il suo Macbettu
Dall’archeologia comparativa alla figura di Willie (il bidello scozzese dei Simpson, sardo nel doppiaggio italiano), le analogie fra Sardegna e Scozia continuano ad essere vivide nell’immaginario collettivo e il riadattamento sardo di Macbeth pensato da Alessandro Serra, per quanto inizialmente appaia stravagante, mostra di essere registicamente pertinente. L’accostamento fra le due regioni (o nazioni?) è uno tra i temi emersi dalla presentazione dello spettacolo di Serra, Macbettu, ospitata venerdì 19 ottobre dall’Università di Pavia in occasione del primo appuntamento di “la stagione del Fraschini in Ateneo – Incontri con gli artisti”, in cui il regista e l’attore Giovanni Carroni (Banquo) hanno avuto modo di raccontare la genesi dell’opera, guidati dalle domande dei docenti Fabrizio Fiaschini (Storia del teatro e dello spettacolo) e Lia Simonetta Guerra (Lingua e letteratura inglese).
Tralasciando momentaneamente la formazione teatrale, nella biografia artistica di Serra va annoverata anche la fotografia, passione che lo porta in Sardegna per seguire il carnevale di Mamoiada. Ed è in questo contesto rituale, dal contatto con i Mamuthones, emblematiche maschere del carnevale sardo, che la suggestione di Macbeth inizia a palesarsi nella testa del regista: istintivamente si manifesta una fra le immagini più note della tragedia scespiriana, la foresta che avanza. L’alterità radicale della dimensione demoniaca presente in Macbeth si incarna qui nei costumi ferini della tradizione sarda, che rimandano etimologicamente alla ritualità dionisiaca (fra le ipotesi più accreditate, Mamuthone viene fatto risalire a Maimone, un demone bacchico della mitologia barbaricina).
I travestimenti non sono gli unici elementi che proiettano una realtà trascendente: anche la lingua possiede un’evocativa tonalità magica. Questo è uno degli aspetti che ha spinto Serra a far recitare il Macbeth in sardo, motivando la sua scelta attraverso una riflessione su quelli che lui considera i tre livelli di una lingua. Il primo livello è quello semantico, in cui la parola designa un oggetto, ha un ruolo narrativo, è caratteristica comune a tutte le lingue. Il secondo livello ha che fare con la sonorità della parola ed è una prerogativa meno democratica: il sardo, ad esempio, ha una musicalità maggiore dell’italiano e ciò permette una traduzione più aderente ai sottotesti scespiriani permeanti l’opera. Il terzo livello riguarda il sopracitato aspetto “magico” della parola: il fenomeno che si manifesta quando questa, per il solo fatto di essere pronunciata, produce un effetto nel mondo, sembra dirigere gli eventi con la potenza di un mantra. Il senso della parola oltrepassa la semantica: la sonorità sarda permette di evocare realtà che una lingua universalmente meno limitata come l’italiano non riuscirebbe a suggerire. Paradossalmente, si comprende di più Shakespeare comprendendolo di meno.
Macbettu è uno spettacolo che evidenzia quello che viene indicato come un aspetto precipuo del teatro: il legame genetico con la ritualità. Ritualità che, presupponendo sempre una comunità (nel caso del teatro la comunità è formata da attori e spettatori, il fulcro del teatro povero di Grotowski), non può prescindere dallo spazio-tempo in cui si colloca e, affinché la relazione che si instaura fra i partecipanti sia autentica, deve essere continuamente riattualizzata. Il rito non viene restituito nella sua purezza originaria, ma ridisegnato per adattarsi alla forma della contemporaneità ed essere così pienamente comunicabile. Il tema del rito è inscritto nella formazione artistica di Serra: scevro da tipizzazioni accademiche, segue da autodidatta gli insegnamenti degli innovatori teatrali novecenteschi (Stanislavski, Mejercol’d, Grotowski…) frequentando laboratori.
Nella visione del Laboratorio, all’attore viene riconosciuta una funzione pienamente creativa: gli spettacoli sono frutto di azioni fisiche, improvvisazioni che vengono poi montate e inserite nel contesto organico dello spettacolo. Il corpo dell’attore è il fulcro della rappresentazione, così come il corpo degli attuanti è il fulcro del rito: l’azione è nel diaframma, negli arti, nelle intenzioni, nella vocalità. Il corpo è al centro, la parola è subordinata: spinge l’azione e va sostituita quando si mostra inadeguata. Il testo funge da pretesto: l’attore non gli si avvicina con un rigore pedissequo, ma va a coglierne gli archetipi per incarnarli nell’azione.
Incalzato a motivare la propria scelta registica, Serra ribadisce una verità che trova poco riscontro nei cartelloni dei grandi teatri: i classici sono testi noti, il piacere non sta nello scoprire l’esito, risaputo, della narrazione, ma nel far vivere suggestioni presenti nel testo attraverso l’allestimento. Una buona rappresentazione deve aggiungere sempre qualcosa di nuovo al testo: monito da incidere nella pietra per scongiurare il riprodursi di quel teatro convenzionale e stantio che Peter Brook efficacemente chiamava “teatro mortale”.
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista