Il teatro italiano ha un problema con il divario di genere – La tragica mappatura 2020-24 di Amleta
Non ci girerò intorno: dopo aver assistito alla presentazione della mappatura di Amleta 2020-2024 alla Fabbrica del Vapore, mi viene proprio voglia di andarmene da questo paese. Sarà l’età, sarà Saturno contro o persino, lo rivendico, il livello di progesterone in circolo, sarà che non c’era neanche un uomo nel pubblico, ma mi viene proprio voglia di lasciare questa inquinata pianura padana. E nemmeno per tornarmene nella mia soleggiata e inospitale terra d’origine, ma su e ancora più su, sperando che fuori le cose vadano meglio. Perché questo non è un paese per giovani, e non è un paese per donne (per madri, forse forse, ci sta provando, ma non sconfino in territori che non conosco).
I numeri della mappatura di Amleta 2020-2024 sulla presenza delle donne nel teatro italiano, sono spietati e parlano da sé. Il progetto che la straordinaria associazione femminista e internazionale aveva cominciato studiando il triennio 2017-2020, quest’anno conta sul supporto accademico dell’Università degli Studi di Brescia: sotto la direzione della professoressa e ing. Mariasole Bannò, un gruppo di giovani ricercatrici e un ricercatore ha misurato con metodo scientifico le disparità nella forza lavoro del comparto teatrale in Italia.
La mappatura di Amleta 2020-2024 si è mossa suddividendo innanzitutto il momento della produzione da quella della rappresentazione: in sostanza, la parte di sviluppo, messa a terra e promozione dell’opera da un lato; le repliche dall’altro. L’altra biforcazione analitica è rappresentata dai due assi delle professioni e dei luoghi: per le prime, quattro le categorie adottate (regia, drammaturgia, adattamento, interpretazione); per gli spazi, invece, la distinzione è tra i Teatri Nazionali (otto in totale) e il circuito TRIC – Teatri di Rilevante Interesse Culturale (diciotto), immaginando quindi una diversificazione nel grado di visibilità e di risorse finanziarie a disposizione per (co-)produzioni, e avendo segmentato ulteriormente la rilevazione distinguendo le sale principali dalle sale secondarie (a volte dentro lo stesso teatro, altre volte ubicate in sedi diverse). Infine, un disclaimer sulla definizione di “genere”, che necessita di una semplificazione per i propositi della mappatura, dovendosi quindi basare su un approccio binario e sul genere d’elezione.
E che ora cominci la tragedia. 305 stagioni; 2903 titoli di prosa; 18602 posti di lavoro. Le donne presenti a teatro sono circa 35,1 %. E se questo dato non bastasse a farvi sobbalzare dalla sedia, è sufficiente scavare un po’ per scoprire che la crepa nel muro rivela la muffa che impregna tutta la casa: le registe sono il 21%, cioè una su cinque, mentre le interpreti quasi il doppio. Questa distinzione è importante perché segnala che anche il tetto del teatro è di cristallo. Per quanto lo spettacolo sia, inutile ribadirlo, una straordinaria opera collettiva in cui non è possibile sancire delle gerarchie interne di rilevanza per la sua buona riuscita, sarebbe intellettualmente disonesto non riconoscere alla figura del regista un certo peso nella definizione del progetto artistico nella sua interezza. Le drammaturghe – altra figura professionale dietro le quinte, spesso artefici di buona parte della qualità artistica dello spettacolo – crescono fino al 29,1%, mentre per l’adattamento si scende di nuovo al 26,8%.
L’andamento è pressoché simile tra Teatri Nazionali e TRIC, ma anche la lieve variazione percentuale sta a segnalare che nei primi, che godono dei pubblici più ampi, dei finanziamenti più corposi e che sono macchine estremamente potenti di definizione del gusto e dell’opinione, queste dinamiche sono ancora più esacerbate. Potrei continuare dicendovi che, lì dove possibile, le donne nelle figure apicali circolano nelle sale secondarie più che nelle principali, ma immagino possiate dedurre da voi come va a finire questa storia. Cioè male. Perché se guardiamo all’incidenza delle donne sulle repliche, le registe scendono al 17%, mentre restano più o meno stabili le altre figure professionali.
E quindi, che si fa, ci siamo chieste in Fabbrica. Ecco, il mio professore di scienza politica a Pavia ci ripeteva sempre che il politologo è appunto uno scienziato: è uno che studia i fenomeni e poi dice ai decisori come muoversi, stando ai dati, per ottenere i propri obiettivi. Il punto però è che gli obiettivi non li sanciscono gli studiosi, ma i decision-makers, che siano politici o direttori artistici. Il ragionamento è piuttosto limpido: se e solo se le attuali direzioni artistiche (che hanno potere di decidere verso quali produzioni investire i fondi) ritengono che la disparità di genere sia problematica, ebbene che si impegnino a invertire il corso delle cose, a partire dall’evidente fotografia di un’asimmetria nella scelta delle figure artistiche di creazione nel settore teatrale. Potrebbero decidere di agire così per due ragioni: una normativa e morale, per cui si assume che lo squilibrio di genere sia un disvalore di per sé, perché reitera una società in cui le barriere d’accesso ai vertici sono gelosamente custodite da uomini; una estetica e mossa da un principio di efficacia artistica, per cui ci stiamo perdendo delle idee diverse, una visione in più del mondo, e stiamo soffocando le programmazioni teatrali portando gli stessi nomi e le stesse interpretazioni dell’arte del teatro.
Ma chi è sopravvissuto a questa desolante panoramica si merita una pars costruens che possa invitare all’azione. I teatri usano fondi pubblici, e i fondi pubblici sono dentro bilanci di spesa nazionali: ci sono scelte politiche precise in gioco. Con il gergo della scienza politica si direbbe che la cultura non è una issue saliente: non si parla di pensioni, o di scenari geopolitici, di politiche del lavoro o di ambiente, temi che smuovono maggiormente gli elettorati perché percepiti come più urgenti (e infatti mio padre mi dice sempre che non posso mangiare Sofocle a pranzo, e quale criminale velleità mi faccia sognare di guadagnarmi il pane riscrivendo l’Elettra!). Per questo motivo non troverete mai dei partiti che fanno delle politiche culturali la loro bandiera, la polena del loro vascello in campagna elettorale: eppure è uno degli atti democratici per eccellenza, la libertà di creazione e di parola, che può insinuarsi in profondità negli immaginari e riportarci ai rituali collettivi smarriti. Ma il Governo e il Parlamento non sono le uniche pedine nel processo politico: nel Risiko! ci sono altri attori politicamente rilevanti, e circuiti alternativi per poter fare pressione sui decisori. Bisogna fare quello che Amleta sta facendo, ma molto di più: fare lobbying legittimando questa pratica con strumenti trasparenti, organizzare i metodi dell’azione collettiva, allearsi, boicottare, presidiare, e poi domandare domandare domandare alla politica un teatro più eguale, una cultura più sana, un’arte più sublime.
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