
Horror al femminile: (altri) tre film per tre registe
Qualcosa sta cambiando nel cinema di genere: nelle storie che vengono raccontate, nel modo di raccontarle, nella platea di pubblico che riesce a raggiungere e nella composizione della stessa. Ma, soprattutto, qualcosa sta cambiando in chi si trova dietro la macchina da presa, il demiurgo e primo responsabile della riuscita di un film. Non più di due anni fa ho dedicato il mio articolo di Halloween a tre film horror diretti e sceneggiati da tre registe, usciti tra il 2014 e il 2016, ed emersi da un contesto non statunitense; un primo timido segnale di cambiamento in un universo solitamente dominato dallo sguardo maschile.
Si badi bene, con ciò non voglio dire che il cinema horror abbia fino ad oggi rimosso il femminile, poiché la storia del genere e le storie raccontate sono lì a dimostrare il contrario. Facendo una breve ricognizione, possiamo notare come sia frequente che una figura femminile sia il perno attorno al quale ruotano le vicende del film. Da La maschera del demonio (Mario Bava, 1960) a Suspiria (Dario Argento, 1977), dalle final girls degli slasher alla new french extremity con Martyrs (Pascal Laugier, 2008) e À l’intérieur (Bustillo & Maury, 2007), fino a giungere oggi a The Witch (Robert Eggers, 2015) e Midsommar (Ari Aster, 2018). Tuttavia, la specificità dello sguardo femminile a monte della fase di produzione, ossia la sua presenza in sede di ideazione, scrittura e regia di un film, è qualcosa a cui assistiamo solo da pochi anni, o in alcune notevoli eccezioni del passato (vedasi l’apporto della compianta Daria Nicolodi alla sceneggiatura di Suspiria). C’è una grande differenza tra l’essere soggetto di un’opera e il poter partecipare al processo creativo della stessa, tra una raffigurazione consapevole e l’essere filtrati attraverso le lenti di un genere differente.
Per queste ragioni, penso sia interessante segnalare altri tre esempi di horror scritti e diretti da donne, usciti negli ultimi tre anni e soggetti a una risonanza mediatica più o meno elevata. Tutti e tre sono contraddistinti da una comune attenzione alla componente psicologica e relazionale, oltre che da una grande cura del lato tecnico che li inseriscono a pieno tra i prodotti più meritevoli di attenzione del panorama horror contemporaneo.
Braid – Mitzi Peirone, 2018

Trasferitasi negli USA all’età di 19 anni, Mitzi Peirone è una giovane regista italiana il cui lungometraggio d’esordio è un horror psicologico a basso budget. Braid è un’opera essenzialmente tripartita, dominata da tre protagoniste la cui relazione reciproca si sviluppa sulla direttrice che collega l’infanzia all’età adulta. Il film è un concentrato di riferimenti estetici e narrativi differenti che, mescolandosi, esplodono letteralmente sullo schermo. Nel dinamismo convulso dei movimenti di macchina e nelle sequenze allucinate si rivede il cinema di Gaspar Noè; nell’assurdità perturbante delle situazioni casalinghe più (stra)ordinarie sembra di scorgere Yorgos Lanthimos; e nella patina e simmetria compositiva di certe inquadrature traspare il passato della regista, autrice di alcuni cortometraggi per il mondo della moda. Tutti rimandi che sono digeriti e riproposti sotto una lente nuova, al cui centro vi è la confusione dei ruoli sociali e famigliari prestabiliti, insieme al peso dell’infanzia nel rapporto con il proprio corpo e la propria psiche. In definitiva, ci troviamo di fronte a un’opera anarchica, dinamica e pulsionale, in continua re-definizione in virtù della sua radicale libertà, la cui breve durata non ne compromette assolutamente la profondità e molteplicità di significato.
The Lodge – Veronika Franz & Severin Fiala, 2019

Questa coppia di registi rappresenta un gradito ritorno; uno dei tre film di cui ho parlato nel mio vecchio articolo è, infatti, il loro Goodnight Mommy (2014). In The Lodge, Franz e Fiala ripropongono il tema chiave dell’ambiguità e delle apparenze, essendo la protagonista una donna dal passato traumatico legato a una setta religiosa che deve inserirsi in un nuovo contesto famigliare. Uno degli aspetti più interessanti dell’opera è il triplo gioco di manipolazione che viene messo in atto: dai registi verso lo spettatore, dalle vicende esterne verso i personaggi e da ogni personaggio in maniera reciproca. Non abbiamo mai la certezza di chi occupi una posizione di dominio psicologico sugli altri, perché tutti i personaggi sono vittime delle loro debolezze, spesso dettate dal rapporto distorto che hanno con la fede. Una confusione riflessa espressionisticamente nel paesaggio bianco e indistinto, immerso in un’atmosfera gelida e sferzato da una tormenta infernale. L’inquietudine si insinua lentamente in un ambiente casalingo falsamente caloroso, cresce insieme agli archi distorti della colonna sonora, riapre le cicatrici delle ferite inflitte alla psiche dai traumi pregressi. The Lodge è un film freddo ed elegante, a tratti cervellotico ma ugualmente capace di suscitare reazioni emotive forti di fronte agli abissi in cui può precipitare la mente umana.
Relic – Natalie Erika James, 2020

Chiudiamo questa mini-rassegna con una produzione australiana, che in maniera speculare a Braid vede un trio di donne – nonna, madre e figlia – al centro dell’intreccio narrativo. Come per molti altri film di genere degli ultimi anni, la componente orrorifica è strumentale alla narrazione di qualcos’altro, agisce a livello metaforico e fa da sfondo ai rapporti umani che vengono sviscerati nel corso del film. La qualità principale di un’opera simile sta nel minimalismo narrativo e visivo, nel saper lavorare sul non-detto e sul non-mostrato per catturare le dinamiche principali in gioco: due rapporti madre-figlia similmente compromessi, nella cornice di una casa fatiscente e piena di ricordi confusi. Una delle principali fonti di orrore per l’uomo sta in quello che non può conoscere o comprendere razionalmente; ma c’è anche una forma di sgomento, paura e disperazione più sottile, che sta in ciò che non è in grado di ricordare, nell’oblio della mente. I colori sono desaturati, le luci soffuse, i toni sbiaditi; la regista stessa ci toglie ogni possibile punto di riferimento visivo e ci sentiamo spaesati, come se ci venisse tolta la terra da sotto i piedi. Relic è, prima di ogni categorizzazione di genere, un’opera realistica sulla famiglia, sul ricordo, sulla memoria e sulla vecchiaia, e affronta simili tematiche con una sensibilità e delicatezza propria solo delle grandi sceneggiature drammatiche.
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