Come possiamo amare i vivi – L’albergo dei poveri, di Popolizio e Trevi
Massimo Popolizio in una recente intervista ha affermato che i poveri di oggi non sono «gli homeless della Stazione Termini», e che la miseria del ventunesimo secolo «ha a che fare con l’emigrazione, gli sfratti, i divorzi, la perdita di lavoro» piuttosto che – aggiungo io – con la fame, il fango o la paura di morire. Eppure ci sono ancora, i brutti, sporchi e cattivi accasciati a bordo strada, sui resti dei templi romani; i diseredati, i senza casa, i reietti: ai margini della vita urbana eppure così presenti, limpidamente carnali. Non si può non vederli: sono proprio lì, a pochi passi dall’ingresso del teatro. Mi interrogo sul loro destino – che poi è il nostro, spettatori borghesi di teatri decorati in oro – e sull’inesorabile vortice che li ha inghiottiti, così come ha inghiottito i personaggi de L’albergo dei poveri, corale «vascello shakespeariano» con regia di Massimo Popolizio e adattamento di Emanuele Trevi.
Pièce eminentemente politica, importante produzione del Teatro di Roma – di recente al centro del dibattito pubblico a causa di gestioni politiche opache (la discussa nomina del neodirettore De Fusco) e di un clima lavorativo deplorevole –, è attualmente in scena al Piccolo Teatro di Milano, inaugurato nel 1947 proprio con lo stesso spettacolo, diretto da Giorgio Strehler e basato sul dramma I bassifondi di Maksim Gor’kij.
Di un dormitorio si narra, abitato da una schiera di miserabili che anima vertiginose scene color petrolio, dotate di praticabili in legno e materassi su cui si gioca d’azzardo, si beve, si prega e si muore. La polvere, la muffa e il sovraffollamento di corpi – sedici gli attori coinvolti, a tratti contemporaneamente sul palco – sono i segni più evidenti della povertà come «morte in vita», come condizione di emarginazione sociale divorata dal debito e dal veleno dell’alcool.
Una costellazione sottoproletaria composta da resti umani – ciò che Marx definì la «feccia», la «schiuma di tutte le classi»1: vagabondi, baroni decaduti, aspiranti attori, accattoni ed ex prostitute – che è mossa dalle stesse pulsioni del mondo di “sopra”: violenza e amore, denaro e vodka. Le luci della ribalta illuminano a turno i volti dei personaggi, svelando frammenti dei loro vissuti. In poche battute, emergono storie di dolore, sogni infranti e tenacia. Sullo sfondo, si dipana la vicenda principale, che ruota attorno a una coppia di avidi proprietari di locanda e un esotico pellegrino, interpretato da Popolizio stesso (che con Ragazzi di vita si era già cimentato con il sottoproletariato, quello romano però).
Novello Zarathustra, è a partire dal suo messaggio profetico che emergono le questioni fondamentali dello spettacolo. In un mondo senza scopo, speranza o possibilità di salvezza, Luka – così si fa chiamare l’ambiguo pellegrino – porta con sé una risposta agli interrogativi su Dio e il senso dell’esistenza: la verità cristiana come ricetta per curare la patologia del nichilismo e «amare i vivi».
Ci si immerge così in un dramma dal sapore ottocentesco e dostoevskiano, in cui le figure teatrali «uccidono e filosofeggiano… parlano per aforismi e allegorie, sempre in bilico tra perdizione e cinismo, misericordia e tracotanza, inabissate nei meandri della disperazione o guidate dalla volontà di riscatto, alla perenne ricerca del significato della vita»2.
Musiche balcaniche e luci caravaggesche esasperano il dinamismo corporeo dei personaggi, reso possibile dalla gestione impeccabile dello spazio scenico curata dal coreografo Michele Abbondanza. È forse a causa della perfezione del montaggio e dello stile ipercinematografico che si avverte, a tratti, una certa artificiosità dell’ingranaggio teatrale, attenuata da una sempre alta «temperatura emozionale» degli attori. Una recitazione intensa caratterizza infatti tutti gli interpreti – cattura in particolare la forza espressiva di Sandra Toffolatti e Raffaele Esposito –, fedeli allo spirito stanislavskiano con cui il dramma di Gor’kij esordì al Teatro d’arte di Mosca nel 1902, quando ancora non era presente la figura del Principe (Martin Chishimba), musulmano africano su cui la sceneggiatura di Trevi imbastisce le fondamenta di un dialogo interreligioso.
Molteplici verità, dunque: Islam e cristianesimo come “oppio dei poveri”, come risposta alla sofferenza. Prevalgono però lo sberleffo, il pugnale, la frusta: dove regna l’indigenza non c’è spazio per «l’onore e la coscienza». L’indifferenza assordante degli spettatori nei confronti dei senzatetto, una volta usciti dal teatro, ne è la spietata fotografia.
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