
Per tirare le fila: conversazione con due allievi della Scuola del Teatro Fraschini
E se volessi fare teatro a Pavia? Il Teatro Fraschini, in stretta collaborazione con l’università, organizza una Scuola di Teatro di durata biennale, articolata in due possibili curricula: il corso per attori, che offre la possibilità di apprendere e praticare i fondamentali del teatro, e quello per operatori di teatro sociale, che prepara ad affrontare svariate realtà – carceri, centri educativi e scuole, ad esempio – in qualità di formatori teatrali. In ambedue i casi una formazione eclettica, eterogenea, a 360°, che si avvale di molteplici contributi esterni a cura di professionisti del settore.
Abbiamo assistito al saggio di fine anno degli allievi del corso attori del Teatro Fraschini, basato su una serie di fiabe africane, e all’esito del laboratorio intensivo condotto da Mimmo Sorrentino, regista e drammaturgo al lavoro in contesti lontani dalla ribalta, quali carceri e comunità di recupero. Offriamo qui un punto di vista interno, quello di due giovani allievi del corso per attori: Matilda Barone e Ambrogio Grossi.
L’attento lavoro sul corpo sembra essere un punto che collega, seppur in modo diverso, entrambi gli spettacoli. Nel primo più individuale – ogni attore lavorava sul mimo di animali o elementi naturali – e nel secondo più collettivo – attraverso partiture corali. Vorrei sapere, in generale, su quali direttrici avete impostato il lavoro.
M. e A.: Il primo spettacolo era sotto la supervisione di Angela Malfitano, nostra insegnante, ed è il frutto dei sei mesi di corso svolti presso la Scuola di Teatro del Fraschini.
Gli obiettivi di questa prima parte del corso erano, a dire il vero, l’apprendimento delle tecniche base della narrazione e la pratica della dizione, all’interno di un lavoro più ampio sulla voce. I vari registri, la respirazione, l’appoggio sul diaframma: anche questo alla fine è lavoro sul corpo, perché è da lì che la voce proviene.
Un lavoro esclusivo sul corpo lo abbiamo fatto in un contesto di training, per esempio raggiungendo uno stato fisico “neutro” e poi costruendo da lì, per gradi, la fisicità di un personaggio.
Il secondo spettacolo è il frutto di quattro giorni di laboratorio con Mimmo Sorrentino. L’intento era farci comprendere il suo peculiare modo di lavorare: creare progetti in contesti particolari al fine di far recitare persone senza preparazione attoriale.
C’è stato un momento in cui Mimmo ci ha fatto fare un brevissimo sketch, un’azione attoriale con una frase: tipico esercizio che fanno fare alle audizioni. Mimmo ha sfruttato il laboratorio da un lato per mostrare agli operatori di teatro sociale il suo modus operandi, dall’altro per illustrare a noi del corso attori alcune dinamiche economiche o attoriali, ad esempio come possa funzionare un provino.

Mimmo ha lavorato con persone provenienti da contesti complessi: ragazzi di periferia, disabili, carcerate. Quanto di queste esperienze è confluito nella vostra?
M. e A.: Il processo di creazione del nostro spettacolo è stato molto simile a quello che lui usa in questi contesti. Prima impara le regole, le consuetudini e il linguaggio del gruppo con cui lavora, poi, sfruttandone il potenziale espressivo e poetico, costruisce un testo. Il testo drammaturgico, lui sostiene, parte da un ascolto, e direi che anche noi ci siamo sentiti ascoltati.
Il primo spettacolo era un collage di fiabe africane. Perché scegliere un genere di matrice non direttamente teatrale?
M. e A.: La nostra regista ha preso spunto dalle due lezioni che abbiamo svolto con l’insegnante di canto, con cui abbiamo svolto un allenamento vocale basato su canzoni africane, semplici e intuitive. Angela, suggestionata dall’idea, ha deciso di farci proseguire su questa strada. Voleva vederci alla prova con azioni teatrali essenziali ed efficaci, coerentemente con il contenuto delle fiabe, che con semplicità e concisamente restituiscono il ritratto di un continente attraverso miti e leggende.
C’è stato spazio per l’improvvisazione o per vostre proposte?
M. e A.: Secondo la nostra insegnante, per l’attore è importante imparare ad essere creta nelle mani del regista. Lo spazio per la sperimentazione è, di conseguenza, limitato. Abbiamo giusto potuto scegliere la storia da mettere in scena.
Essendo molti di noi alle prime armi, il lavoro di improvvisazione sarebbe forse stato troppo complesso e specifico. L’improvvisazione parte da un corpo e una mente allenata.
La più grande difficoltà incontrata nel primo e nel secondo lavoro?
M.: Nel primo, per me, è stata trovare, scegliere e riadattare il testo. L’Africa non è piccola, c’era parecchia scelta.
A: Per è me la difficoltà più grande è stata collegare un teatro di narrazione con un processo di “decostruzione”. Coniugare l’elemento della narrazione, che è tecnico, finalizzato a comunicare ad un pubblico, con un lavoro sul corpo quasi “parodico”: non sto lavorando sulla fisicità e sui movimenti di un animale “in carne e ossa”, bensì su un animale “da cartone animato”, “stilizzato”.
M.: Per quanto riguarda il secondo spettacolo, a rischio di dire un’ovvietà, la complessità è stata l’“intensità” del laboratorio. Cinque ore al giorno per quattro giorni, in piena sessione, per giunta la sera. Mimmo ci ha davvero motivati. In un breve lasso di tempo e senza poterci dedicare individualmente tutta l’attenzione che avrebbe voluto, ha comunque spinto ognuno di noi a dare il massimo.
A.: Eravamo due gruppi con formazione e obiettivi diversi. Lui fa entrambe le cose: è un attore e fa teatro sociale. Nonostante ciò, il poco tempo previsto per il workshop rendeva difficoltoso amalgamare entrambi gli aspetti.

Una mia riflessione sul secondo spettacolo: le vostre partiture coreografiche, questa sorta di “marce” collettive, suggerivano quasi l’idea di una brama di ribellione; il fervore e la veemenza di giovani ventenni che, anche un po’ ingenuamente, ambiscono a cambiare un mondo che li lascia insoddisfatti.
M. e A.: La tua percezione è giustificabile. Mimmo ha detto che, anche se non siamo anagraficamente adolescenti, con noi ha fatto un lavoro simile a quello che fa con loro. Come loro abbiamo un “desiderio di adultità latente”. Da qui il paradosso: le frasi pronunciate durante lo spettacolo sono gli slogan di una gioventù arrabbiata che inneggia al cambiamento, ma anche il modo in cui si esprime qualcuno che ha bisogno di elementi fissi, certezze su cui costruirsi. Come faceva notare Mimmo, è il modo in cui ragionano i bambini, e noi, per certi versi, seppur ventenni, ancora lo siamo.
Una riflessione finale generale sul vostro lavoro?
M.: Mi sentirei di parlare del valore artistico delle nostre performance e del nostro “diritto all’inesperienza”. Molti del nostro gruppo del corso attori sono agli albori dell’esperienza teatrale. È stato difficile, per me che avevo già esperienze alle spalle, ricominciare da capo tornando alle basi e costruire una nuova tecnica. Questi spettacoli mi hanno ricordato quanto fosse difficile recitare. Recitare è qualcosa che coinvolge completamente tutto quello che fai, è un lavoro che non si esaurisce nelle tre ore settimanali di corso. È nostro diritto, al momento, lavorare, magari sbagliando, su tutte queste cose davanti a un pubblico.
A.: Quelli che abbiamo realizzato sono “esercizi” più che spettacoli, saggi finalizzati a tirare le fila del lavoro svolto durante l’anno. Vanno giudicati come tali. Il valore di questi “spettacoli” è prettamente formativo: decostruirci per poterci ricostruire, eliminare ciò che diamo per scontato nel nostro modo di muoverci ed esprimerci.
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