
Di Caro Diario e di quando Moretti si immerse nel mondo
«Caro diario, c’è una cosa che mi piace fare più di tutte…». È la voce fuori campo di Nanni Moretti e parla dei suoi giri un vespa, peregrinazioni morbide e appassionate, inclinazioni angolate da cui guardare al meglio la città di Roma imbalsamata nell’estate. Un cult, una sequenza che diventa figura illustrata, firma autoriale, una locandina iconica, addirittura diventerà il logo della sua Sacher Film: Moretti in vespa, spazza via anni di citazioni inflazionate, di pose e gesti morettiani. Anche in questo senso, Caro Diario rappresenta lo strappo in uno schema, il dribbling di un individuo alla sua maschera pubblica, all’incasellamento in una tipizzazione rassicurante, ironica, narcisista.

Infatti, la voce fuori campo dell’inizio è di Moretti. Finalmente, di Moretti. Perché Michele Apicella è definitivamente annegato nella piscina di Palombella Rossa, deluso e rimuginante. E quando un autore decide di ammazzare il suo alter ego, non può che affidarsi alla pagina di un diario, o di uno schermo. Uno schermo ricco di appunti, documenti, tracce e prove di verità. Addirittura i veri referti medici del suo tumore. Perché “Le parole sono importanti. Ma anche le immagini non scherzano”, come scriveva Emanuela Martini, su FilmTv, in riferimento al fatto che Caro Diario, miglior regia a Cannes 1993, è il film non più estetico, ma forse il più visibile di Nanni Moretti, quantomento quello che ne rivela il vero talento registico.

Al di là della regia meno appartata, più poetica, in Caro Diario, le immagini colmano il vuoto della parola scritta e detta, la rendono pensiero volatile nel mondo, riga sottile in uno scritto infinito, perché universalizzano il privato di un uomo nell’urbanità, nella mondanità, nel sempre più straniante vivere comune. L’immediatezza diaristica è il viatico per mostrarci Moretti a contatto con la contemporaneità, dentro la routine; non solamente a rappresentarla, irriderla, metterla in questione acutamente.
Si tratta di un’affermazione positiva del valore e delle potenzialità del cinema, del ruolo connettivo che ha l’autore nell’unire pubblico e mondo. Un processo che continuerà con Aprile, più spiccatamente documentario nell’unire individuo e presente politico, paternità di un uomo e crollo ideologico; nomadismo di macchina da presa che riecheggerà nei tragitti spaesati di Michel Piccoli in Habemus Papam; ma soprattutto un mettersi in scena, un rappresentarsi timido e indolenzito, che culminerà nell’ultimo Il Sol dell’Avvenire.

Perché è Caro Diario la prima auto-critica cinematografica di Moretti, il primo scarto filmografico rispetto a un ovvio e un risaputo. Le sue, sono immagini che respirano e pazientano, scorgono la storia – quel che ne è rimasto – sotto l’abitudine. All’intimità di una parola rivolta a sé stesso, risponde la contemplazione di un movimento a seguire. L’amato camera-car insegue Moretti. E la vera rivoluzione è che Moretti ci semina con leggiadria, allontanandosi sempre di più sulla sua vespa. Lo stesso Moretti che un tempo si riteneva incapace di escludersi dalla scena, di “spostarsi per farci vedere il film”. Un soggetto che sfugge al suo svelamento, un’emozionalità che rifiuta di sdoganarsi, un memoire che è schietto perché reticente, profondo perché soppesato, vero perché ellittico.

Caro Diario oscilla tra la proverbiale cinica ironia un po’ adolescenziale di Moretti e la nuova commozione a ralenti di “uno splendido quarantenne”, in tre capitoli (In vespa, Isole e Medici), che danno ritmo, senso e ordine a un periodo di silenzio. Perché, ascoltandosi, Moretti ascolta il tempo in cui è. Ad esempio, una Roma spenta e bellissima come ne L’Eclissi, qui orfana di Pasolini (che Moretti omaggia nella stupenda sequenza all’idroscalo di Ostia). Ma anche l’incessante e silenzioso collasso dei valori culturali ed etici di un paese che paga la modernità con la propria identità, il bacillo di una futura riflessione sulla genitorialità e la sua crisi, la dissoluzione dei valori di appartenenza di un luogo nel caos del turismo di massa, la pretesa di controllo ossessivo sul corpo.

Non sono denunce, brutture da osservare in lontananza come vecchi ecomostri, ma piuttosto ambientazioni e gestualità dialettiche, storture diventate consuetudine, realtà in cui Moretti si immerge a pieno, a cui partecipa, perché ormai non si può fare altrimenti. Nel suo film più accoratamente identitario, Moretti guarda e respira la disidentità di un tempo attraverso il suo corpo, nel baratro chiaroscurale di un auto-fiction. Non ci sono più critiche abrasive, declamate, ma problematicità che in quell’incontro fiorente tra vita e racconto che è un diario, riemergono vivide. E Moretti, volente o nolente, ci si sporca, finalmente, riuscendo in un’impresa paradossale: firmare il suo film più personale, sottraendosi ad esso. Defilandosi, con straziante pudore, lasciando spazio al racconto, ancora una volta dell’oggi.

Moretti, pur convinto che “anche in una società più decente di questa, si troverà sempre con una minoranza di persone”, con Caro Diario prova definitivamente che il suo immaginario esiste e che il suo cinema non è un sistema introflesso, che dialoga solo con sé stesso. Caro Diario è un cinema pensoso e onesto, un dolore lancinante che si fa sgargiante per andare a una festa. Uno dei film italiani migliori di sempre, perché di scanzonata, leggera malinconia. Come è bello il cinema quando si incolla al vero senza la pretesa di descriverlo, come quando si guardano le case, sfrecciando su una vespa, o su un monopattino elettrico, senza paura di cadere.
Diari d’amore – Nanni Moretti esordisce in teatro in punta di piedi
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