
Viaggio a Tokyo – 70 anni di un’umanità senza tempo
Mai prima di lui e mai dopo di lui il cinema è stato così vicino alla sua essenza e al suo scopo ultimo.
Wim Wenders
Un pensiero imperturbabile, pronunciato sopra gli iconici titoli di testa di Viaggio a Tokyo (1953). È l’assolutezza incrollabile di queste parole a orientare la cinepresa del regista tedesco in Tokyo-Ga (1985), un viaggio in terra nipponica sulle tracce di Yasujirō Ozu, a distanza di oltre vent’anni dalla sua morte. Come un sonnambulo affamato di immagini, Wenders si aggira col suo occhio meccanico tra giocatori di pachinko ipnotizzati dal rumore assordante delle biglie e cibi di cera tanto accurati e splendenti da sembrare commestibili.
Cosa resta di Ozu nel Giappone americanizzato del 1983? Parrebbe nulla, almeno finché lo sguardo non incrocia un bambino che, disinteressato del gran via vai metropolitano intorno a lui, resta seduto a terra rifiutandosi di camminare sulle proprie gambe. E così quel ragazzino diventa immediatamente un’immagine pura: il capriccio dei tanti Minoru e Isamu disseminati nei film del maestro giapponese. Cosa resta oggi, invece, allo spegnersi della settantesima candelina? La stessa immutata umanità: se Ozu è diventato un oggetto di culto e la sua filmografia un piccolo tesoro cinematografico, lo deve tanto alla sua sensibilità filmica anti-grammaticale, quanto alla sua capacità di scovare il nocciolo duro della vita e illuminarlo in inquadrature limpide, così vicine all’essenza di ciò che chiamiamo vita.

In Viaggio a Tokyo, consacrato dalla rivista «Sight & Sound» tra i film più belli di tutti i tempi, un’anziana coppia, gli splendidi Shūkichi (l’attore feticcio Chishū Ryū) e Tomi (Chieko Higashiyama), si appresta a lasciare la piccola cittadina di Onomichi alla volta della moderna capitale, dove vivono i figli Kōichi e Shige, i quali però sono troppo occupati dalle proprie faccende per dedicare loro del tempo. È, come vorrebbe il titolo originale, “una storia di Tokyo” (Tōkyō Monogatari), una tra le tante micro-vicende che popolano una città in piena trasformazione urbana e di costume, ma potrebbe anche essere la storia del nostro vicino di casa.
Si può dire che la frattura nell’armonia tra genitori e figli è un soggetto che interessava Ozu da sempre – lo aveva sperimentato fin dal 1936 con Figlio unico e poi in Fratelli e sorelle della famiglia Toda (1941) – ma solo dopo la seconda guerra mondiale si è dedicato interamente allo shomingeki (dramma familiare della piccola borghesia), finendo per raccontare gli stessi fatti, ambientati nella stessa città, con gli stessi personaggi: figlie riluttanti al matrimonio, litigi tra mogli e mariti, tradimenti, riconoscimenti e morti, in altre parole, lo sfaldamento della famiglia tradizionale.

Negli anni dell’occupazione americana, l’allora già celebre autore assiste ad un Paese che, nel cambiare muta, abbandona anche i suoi valori più autentici – il piacere dell’accudimento, il ritmo pacato della vita, il rispetto dei rituali; eppure, attraverso il suo cinema, ne scatta un’istantanea senza satira e senza melodrammi, ma solo con la nostalgia per lo svanire di un mondo prima così familiare. Nel Giappone di Viaggio a Tokyo, dominato da ciminiere fumose e frastornato dal rumore del treno, il vecchio fatica a integrarsi con il nuovo, lasciando posto solo a solitudine e incomunicabilità generazionale, se non fosse per la luccicante devozione di Noriko, interpretata dalla bellissima Setsuko Hara, vedova del secondogenito morto in guerra. Un affetto, dunque, non motivato da un’appartenenza di sangue, eppure sincero e senza riserve, che ricorda da vicino la poetica del connazionale Hirokazu Kore’eda.

Intere vite emotive si consumano sotto una superficie appena increspata, in gesti minimi e parole innocue per pensieri impronunciabili. Nulla si mostra, ma tutto accade davanti allo sguardo assoluto di Ozu, colui che, più di chiunque altro, ha raffinato lo stile filmico, limandolo fino al suo splendente scheletro. Il carrello orizzontale che scopre i due coniugi al parco – seduti l’uno accanto all’altra seppur incerti su dove passeranno la notte – è l’unico movimento di macchina in un film in cui ogni immagine è una goccia d’acqua distillata che s’insinua nella roccia fino a spaccarla: un’umanità messa a nudo, scovata nella banalità del quotidiano e guardata con discrezione – ad altezza tatami – mentre si muove con sicurezza nel proprio labirinto domestico.
Il regista vede la rottura tra i personaggi, però continua a ricercare l’armonia tra di essi, costruendola nel parallelismo delle pose corporee e nell’unidirezionalità degli sguardi, nel dialogo conciliante e nei sorrisi accomodanti. Così è lo scambio finale tra Noriko e la più giovane Kyōko, simili nell’aspetto e nella devozione, ma diverse per età ed esperienza: Kōichi e Shige possono essere egoisti, sì, ma, se nel crescere i figli si allontanano dalle aspettative dei genitori, la colpa è della vita, perché le cose semplicemente fluiscono secondo il loro ordine abituale, sebbene deludente.

È la sensibilità di Ozu nei confronti del sentimento autentico a motivare l’infrazione alla “grammatica cinematografica” per votare lo stile a una radicale essenzialità, ma, proprio per questo, capace di guardare al dolore e all’amore e incendiarli sullo schermo. Senza essere delegata alla potenza drammatica del primo piano, l’emozione esplode in purezza e riverbera nelle nature morte, inquadrature-cuscinetto, le definisce Noël Burch, in grado di sospendere la narrazione per farsi amplificatori della commozione spettatoriale: leggiamo il senso di perdita nel binario vuoto, la malinconia e la resilienza nel battello che incede sull’acqua, la serenità domestica in una casa vuota. In Viaggio a Tokyo come altrove, Ozu ritrae il suo Giappone, un paese in cambiamento, ma al contempo, quelle stesse immagini, parlano di un’universalità senza nazione, in cui ciascun uomo o donna, conclude Wim Wenders, «non solo si riconosce, ma da cui può apprendere anche qualcosa di sé stesso».
Dal 2015 Birdmen Magazine raccoglie le voci di cento giovani da tutta Italia: una rivista indipendente no profit – testata giornalistica registrata – votata al cinema, alle serie e al teatro (e a tutte le declinazioni dell’audiovisivo). Oltre alle edizioni cartacee annuali, cura progetti e collaborazioni con festival e istituzioni. Birdmen Magazine ha una redazione diffusa: le sedi principali sono a Pavia e Bologna
Aiutaci a sostenere il progetto e ottieni i contenuti Birdmen Premium. Associati a Birdmen Magazine – APS, l‘associazione della rivista