
Makanai – Un appetitoso teen senza drama
Una fredda giornata d’inverno. Il sole è già alto e una coltre di neve ricopre i tetti. Una nonna e due ragazze sorridenti sono sedute davanti a un tavolo, sorseggiando una deliziosa zuppa di ravioli ancora fumante. Sembra di essere a casa… e invece siamo ad Aomori, in Giappone. Così si apre la serie televisiva firmata da Hirokazu Kore’eda e coprodotta da Netflix: un soffio caldo, familiare e che profuma di cibo.

Sumire (Natsuki Deguchi) e Kiyo (Nana Mori) sono due inseparabili sedicenni che, dopo il diploma, decidono di trasferirsi a Gion, un quartiere di Kyoto sospeso nel tempo, dove affascinanti giovani donne – le geishe – ancora camminano per le strade indossando zoccoli ai piedi e raffinati kimono; sono depositarie di una tradizione in bilico tra la conservazione e l’oblio, fatta di arti performative e intrattenimento, delicatezza dei modi e abilità di conversazione, a cui ormai poche ragazze, come le protagoniste, vengono iniziate.
Memorie di una geisha 2.0? Assolutamente no. La storia che vuole raccontare Kore’eda, ispirata al popolare manga di Aiko Koyama Maiko-san Chi no Makanai-san, è oltremodo distante dalle atmosfere violente, perverse, drammatiche – e drammaticamente occidentalizzate – del film di Rob Marshall. La vita nell’okiya dove le due amiche vivono insieme alle altre maiko (apprendiste geiko) scorre lentamente, al ritmo del passare delle stagioni, tra lezioni, piccoli rituali, nostalgie e lo sfrigolio dell’olio in padella. Un coming of age, ma con le tinte tenui di una fotografia in grado di appianare i contrasti e le difficoltà della crescita, naturalmente limpida come non si è mai vista, tantomeno su Netflix.

Quanto il colosso dello streaming ami arricchire il suo catalogo con storie di adolescenti alla scoperta di sé, o semplicemente alla ricerca del proprio partner per il ballo scolastico, non è un mistero. Nel mare magnum dei teen drama targati Netflix, però, Makanai brilla della forza del suo autore, perché il dramma sembra non esserci, o almeno non si esprime narrativamente. I conflitti potenziali vengono sistematicamente detonati prima della loro esplosione e liquidati entro la durata di un episodio, a partire dall’impossibilità per Kiyo, un po’ troppo goffa e spensierata, di proseguire la sua carriera da aspirante maiko, mentre l’amica, al contrario, si svela tesoriera di una raffinatezza e una determinazione sorprendenti. Il loro è un viaggio senza scossoni, alla scoperta di talenti sepolti e vocazioni autentiche – Sumire e il mai, Kiyo e la cucina – avendo sempre la certezza di essere insieme.

Il conflitto non si esplica, ma resta nascosto dietro pelli levigate e si deposita sul fondo di grandi occhi neri: volti adombrati da sentimenti complessi, destinati a rimanere inestricati, condensati in sguardi silenziosi e primi piani fotogenici. L’occhio di Kore’eda rimane ipnotizzato dalle superfici nel tentativo di decifrarne gli impercettibili terremoti sotterranei, con la convinzione che, per parafrasare Jean Epstein, l’immagine cinematografica sappia rivelare la qualità essenzialmente interiore dei suoi soggetti, che un’increspatura d’espressione possa farsi indice di un desiderio covato nello spirito. Quelle dei personaggi che popolano l’universo Makanai, dal discreto barista alla madre dell’okiya, dalla bella geiko Momoko alla delicata Sumire, sono anime vitali ed errabonde, alle prese con le ferite dell’amore non corrisposto, «quello più forte» si dice, di una ragazza per il suo amico, una figlia per un padre, una geisha per un attore di kabuki.
Il rimedio secondo Kore’eda è sempre uno ed è sempre lo stesso: la famiglia. A volte uno ha la famiglia che si ritrova – con tutte le disfunzionalità del caso, vedi il successo internazionale Un affare di famiglia (2018) –, altre volte l’intimità degli affetti domestici, un po’ per fortuna, un po’ per scelta, assume forme diverse e si rivela in posti inaspettati: anche nei trafficanti di bambini del recente Le buone stelle – Broker (2022); anche, questo è il caso, tra madri di okiya, sorelle maiko e i fratelli otokoshi che si occupano di vestirle.

Essere famiglia è una dichiarazione d’affetto nonostante tutto, nonostante le idiosincrasie, le piccole follie, o forse proprio per quelle; è prendersi cura di qualcuno senza bisogno di molte parole, ma solo di gesti atavici, come preparare un pasto caldo (e chi può capirlo meglio degli italiani). Un’estetica della cura che, attraverso le mani delicate e premurose della makanai Kiyo, si materializza in un’estetica del cibo, che a ben vedere ricorda gli indimenticabili piatti disegnati dallo Studio Ghibli (la colazione a base di uova e bacon de Il castello errante di Howl o gli onigiri de La città incantata, solo per dirne un paio): cibi semplici, ma saporiti, profumati e gustosi schiudono momenti di intima condivisione e commozione, levigano i conflitti, scandiscono cambiamenti e rituali (come quei soffici e deliziosi panini preparati per il debutto di Sumire). La cucina giapponese è un’arte antica che richiede tempo e dedizione, alla ricerca di sapori nuovi in piatti tradizionali; non meno di quanto una maiko tenda al costante perfezionamento della sua danza, dell’espressione nella forma.

Non è la prima volta che Netflix, il gigante americano, investe su un autore già affermato del cinema contemporaneo, ma per la prima volta racconta una storia sincera, un percorso di formazione autentico, fatto di talenti sorprendenti e legami profondi, capace di toccare non solo i cuori dei suoi spettatori, ma anche (e soprattutto) di stuzzicare i loro palati.
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