
Venice VR Expanded 2021 – Cosa abbiamo visto
A poco più di una settimana dalla chiusura della 78. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, si è concluso il 19 settembre anche il Venice VR Expanded 2021 Satellite Programme, la versione della mostra VR (già fruibile online sulle piattaforme HTC’s Viveport e Facebook’s Oculus, attraverso visori PCVR e Oculus Quest) resa accessibile ai più curiosi e ai molti non in possesso di un visore. Come l’anno precedente, grazie agli allestimenti di alcune istituzioni culturali presenti sul territorio, nel mondo e in Italia (a Milano presso il MEET, Centro di Cultura Digitale a Milano, al Laboratorio Aperto di Modena – Fondazione Giacomo Brodolini, a Torino presso il Museo Nazionale del Cinema e a Venezia al Museo del ‘900 – M9) è stato possibile vedere quasi tutte le opere presenti in laguna: tutti questi poli hanno allestito uno spazio aperto al pubblico, equipaggiato con visori per il periodo dall’1 al 19 settembre, dove gli spettatori hanno potuto sperimentare i progetti in concorso e fuori concorso, inclusa la VRChat Worlds Gallery (una selezione di 35 mondi e 5 eventi speciali in VRChat) e i progetti sviluppati nel corso della quinta e di precedenti edizioni di Biennale College Cinema VR.
Trentasette i progetti a comporre la selezione ufficiale e provenienti da 23 paesi, di cui 24 in concorso. Sul totale, otto video 360°, venticinque progetti in VR, e quattro progetti VR su prenotazione.
Noi di Birdmen siamo andati al MEET per vederne alcuni.
Glimpse
Glimpse è la storia d’amore tra un panda di nome Herbie (con la voce di Taron Egerton) e la sua ragazza, Rice, una cerbiatta (voce di Lucy Boynton). La storia del loro rapporto, dalla conoscenza alla rottura, viene narrata dal punto di vista di Herbie, che di mestiere fa l’illustratore: i ricordi affiorano dunque dalle tavole, dai fogli e dagli schizzi che investono lo spettatore immerso nella stanza del protagonista, ritrovandosi a vivere in modo ravvicinato tutte le fasi cruciali di un’intensa storia d’amore in una narrazione che, seppur non sempre avvincente, riesce ad intrattenere offrendo animazioni ed effetti visivi di qualità. Con la regia di Benjamin Cleary – premio Oscar per il cortometraggio Stutterer nel 2015- e Michael O’Connor – produttore di importanti videogiochi per i marchi SEGA e Nintendo, l’esperienza ha una durata di 22 minuti.

Genesis
Il qui ed ora. Il corto di 13 minuti di Jörg Courtial sembra voler rendere tangibile l’effimera esistenza dell’essere umano: non individualmente ma collettivamente. Per il singolo individuo, mille anni sono un’eternità, ma la verità è che la Terra esiste da un tempo infinitamente superiore e la presenza dell’uomo sul pianeta coincide con un battito di ciglia. Il corto vuole giocare su questa concezione presentando la nascita dell’uomo come l’ultimo secondo di una giornata di 24 ore, scandendo le varie fasi dall’alba della formazione dell’Universo fino ad oggi, cronometrando il tutto con un orologio ideale. 4,7 miliardi di anni di evoluzione sono condensati in un corto che rende lo spettatore un viaggiatore nel tempo e lo immerge in un passato popolato da creature affascinanti e suggestivi paesaggi preistorici, fino ad arrivare agli ultimi, fragili istanti di questo viaggio. Utilizzando sapientemente la tecnologia VR, il corto mira a proiettare l’utente nel “meraviglioso”, relegando però lo stesso a spettatore statico dello scorrere del tempo, secondo un meccanismo di fruizione che non sviluppa a pieno le potenzialità del mezzo e che rischia di non coinvolgere a livello emotivo.

Lu Hui (Samsara)
Riesce benissimo a coinvolgere invece Lu Hui (Samsara), esperienza in concorso della durata di 21 minuti, che si prefigge lo scopo di esplorare il concetto di “cognizione incarnata”, come affermato dal regista (Hsin-chien Huang). Samsara mette in scena la distruzione terrestre ad opera dell’uomo, in un percorso che parte dalla preistoria per arrivare alla contemporaneità e proseguire in un futuro distopico, in cui gli esseri umani sono costretti ad abbandonare la loro forma fisica per incarnarsi in un nuovo essere, adatto alla nuova vita sulla Terra. Due elementi rendono particolarmente riuscita questa esperienza: l’utente rimane seduto sulla sua postazione ma è obbligato dalla regia ad attraversare le situazioni in cui si trova immerso. Si ritrova così ad essere chiamato in causa in una condizione ossimorica di attività e passività, trovandosi a passare attraverso macchine, animali, filo spinato non senza un certo sussulto. Ad aumentare questo coinvolgimento empatico, le braccia dell’avatar che si amalgamano al contesto, divenendo ora mani insanguinate, ora braccia deturpate dalle radiazioni, a chiamare in causa ogni singolo spettatore: impossibile sottrarsi al processo di distruzione/ricostruzione della Terra.

Caves
Il titolo dell’opera lascia pochi dubbi all’immaginazione. Caves è un’esperienza che vuole lo spettatore all’interno della Terra, nelle caverne sottorranee del pianeta, grazie ad un video 360° della durata di 19 minuti al seguito della speleologa Lea Odermatt. Se sotto i nostri piedi ci sono un milione di chilometri di grotte, guardando questo video capiamo come mai solo l’1% ad oggi è stato esplorato. Buio, claustrofobia, senso dell’ignoto, temperature rigide, passaggi stretti e angusti sono solo alcuni degli elementi che disincentivano l’esplorazione: il rischio di rimanere sepolti per sempre è alto, come si scopre alla fine dell’esperienza, che di per sé è didascalica e monotona. Il suo pregio è quello di incrementare la tensione: ad un inizio poco entusiasmante e senza fuochi d’artificio segue una discesa nelle profondità della terra vibrante e palpabile, che trova un sollievo solo a fine dell’esperienza, quando lo spettatore riesce a riemergere assieme alla telecamera. Per percepire tutto questo però, sarebbero stati sufficienti anche solo 10 minuti.

Tearless
L’esperienza di Tearless non lascia spazio alla narrazione. In 12 minuti di visione, non ci sono voci a raccontare quello che viene mostrato allo spettatore, immerso in un luogo abbandonato in quella che sembra essere una foresta coreana. Questo rudere, riusciamo ad intuire, un tempo aveva le sembianze di un capannone: si tratta di una Monkey House, chiamata così per le urla da essa proveniente, una struttura adibita alla cura e alla detenzione delle donne che a seguito della Guerra di Corea erano sospettate di avere malattie sessualmente trasmissibili. Dopo il conflitto, infatti, il governo della Corea del Sud collaborò con gli Stati Uniti, fornendo per i soldati americani 96 accampamenti muniti di case di piacere e locali. Il fenomeno necessitò di essere arginato per le pressioni del governo statunitense, allarmato per l’alto tasso di contrazione di malattie veneree tra i propri soldati: le donne sospettate di avere contratto una malattia sessualmente trasmissibile venivano rinchiuse in questi edifici. Gli unici suoni presenti sono quelli della pioggia, i singhiozzi dei pianti, i mormorii che evocano in una spazio oggi abbandonato le sofferenze lasciate da una presenza invisibile oggi come invisibili furono la dignità e i diritti di quelle donne allora: infatti, non hanno mai ricevuto alcun tipo di risarcimento o riconoscimento pubblico. Come afferma la regista, Gina Kim, «Tearless intende narrare l’esperienza di queste donne ancora in vita. È necessario che le loro voci siano ascoltate, le loro lacrime vissute; le donne che non riuscirono a sopravvivere – i fantasmi che infestano il XXI secolo – meritano una giustizia a lungo attesa». Tutto questo ci viene raccontato dalla sinossi e non dall’esperienza che senza questi elementi di contesto, non risulterebbe comprensibile.

Le Bal de Paris de Blanca Li
Siamo all’opera vincitrice del premio Migliore esperienza VR. Nella sua versione online, questo prodotto si rivela essere il tentativo riuscito di trasporre un musical in realtà virtuale: dopo aver scelto un costume da cerimonia, lo spettatore viene catapultato in un bizzarro ed elegantissimo universo parallelo fatto da canti, musica e ballerini inquietanti mascherati da animali in una narrazione che si concretizza in una storia d’amore scandita da tre atti e altrettante location sognanti: un’imponente sala da ballo, un giardino incantato sospeso sul mare e un buio e festoso locale parigino, in un prodotto che riesce ad incantare e intrattenere; la regista definisce la sua opera «un universo irreale e senza tempo, rétro, futuristico, classico, contemporaneo e, soprattutto, allucinatorio» e non possiamo che confermare. La durata (35 minuti) non deve spaventare: nonostante indossare un visore per così tanto tempo dia un oggettivo fastidio, lo spettacolo riesce a coinvolgere lo spettatore.
Nella sua versione on site, Le bal de Paris de Blanca Li richiede la partecipazione e l’interazione dell’utente, che si trova a vivere l’esperienza assieme ad altri 10 spettatori e a due ballerini professionisti che danno i movimenti ai protagonisti. La versione live poteva essere fruita al Conservatorio Statale di Musica Benedetto Marcello nell’ambito della mostra a Venezia; siamo riusciti solo a sperimentare la versione online.

Goliath: playing with reality
Una lunga esperienza interattiva (25 minuti) ci porta nella mente di un uomo affetto da schizofrenia, facendo vivere allo spettatore un’esperienza psichedelica tra reale e irreale, coinvolgente grazie anche ad animazioni di altissima qualità e ad una colonna sonora azzeccata e ipnotica: e infatti vince il Gran Premio della Giuria per la Migliore opera VR. L’obiettivo dichiarato e centrato dai registi (Barry Gene Murphy, May Abdalla) è infatti quello di «far capire come la realtà sia fragile e come sia facile perderla di vista»: Goliath: Playing with Reality si basa sulle reali esperienze di un uomo malato e costretto a trascorrere gran parte della vita in un ospedale psichiatrico e quasi sempre in isolamento: l’unico modo che l’uomo ha per relazionarsi con il resto del mondo è attraverso giochi multiplayer online. L’esperienza richiede già una certa dimestichezza con i visori, poiché l’interattività prevista è medio-alta.

Micro Monsters with David Attenborough
L’esperienza si presenta come una serie di video a 180° focalizzata sulla scoperta del mondo degli insetti, narrata dal naturalista e divulgatore britannico David Attenborough; il micromondo di ragni, scorpioni, millepiedi è proposto in primissimo piano e diventa tutt’altro che micro, offrendo un’esperienza di qualità. Da un punto di vista narrativo, non bisogna avere troppe pretese: l’esperienza altro non è che un documentario divulgativo e risulta interessante solo se appassionati di questi animali.

Space explorers: the ISS experience ep.1 Adapt /ep. 2 Advanced
Di stampo simile è Space Explorers: the ISS experience, una serie di 4 episodi (di cui solo due disponibili) che mostra il soggiorno di alcuni astronauti a bordo di una stazione spaziale internazionale. L’esperienza consiste in un video a 360° a stretto contatto con i quattro protagonisti e le loro missioni: come ben sappiamo, senza gravità, anche le azioni più semplici come mangiare e muoversi risultano complicate; all’utente non è richiesta alcun tipo di interazione e ci troviamo spettatori passivi e invisibili di questa esperienza in orbita. Nota di plauso: si tratta della più grande produzione mai filmata nello spazio, in quello che è a tutti gli effetti un viaggio inaccessibile alle persone comuni, risultato di due anni di riprese e più di 200 ore di filmati girati a bordo della stazione spaziale in realtà virtuale 3D a 360°.

Reeducate
Siamo di fronte ad un documentario immersivo animato, illustrato in penna e pennarello. Reeducate si basa sulle testimonianze di Erbaqyt Otarbai, Orynbek Koksebek e Amanzhan Setuly, tre uomini imprigionati in un campo di “rieducazione” dello Xinjiang, rinchiusi insieme perché facenti parte di una minoranza musulmana: dal 2017 infatti, le autorità governative cinesi hanno iniziato a rinchiudere e torturare migliaia di minoranze in campi di detenzione extragiudiziali e si conta che nel 2018, fino a un milione di persone siano state imprigionate, mettendo in atto probabilmente il più grande progetto di internamento di minoranze etniche e religiose dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi. L’esperienza vuole far vivere in prima persona l’angoscia della prigionia, racchiudendo lo spettatore in quattro mura, e la paura delle torture, concludendo mettendo chi guarda direttamente di fronte ai testimoni del racconto; l’esperienza (della durata di 20 minuti) realizzata grazie al giornalista Ben Mauk, al regista Sam Wolson, e gli artisti Matt Huynh e Nicholas Rubin riesce nel sue intento di denuncia.

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