
The zone of interest – La nuova immagine dell’Olocausto | Cannes 76
In Campi di concentramento nazisti, Samuel Fuller registrava in piano sequenza la distanza che intercorre tra il campo di concentramento di Falkenau e il villaggio più vicino. Tentava così di dimostrare che, data la prossimità tra i due luoghi, i cittadini del villaggio non potessero essere all’oscuro di ciò che accadeva accanto a loro. Registrava, appunto. Nel gesto del piano sequenza, scollegato, svuotato di metodica partecipazione a una costruzione consapevole dell’immagine, emergeva il tocco corrosivo di un intento morale. Quello della complicità degli abitanti del villaggio. Sostituiamo alla qualità autenticatrice del piano sequenza quella delle videocamere usate come dispositivi di sorveglianza, come fatto da Jonathan Glazer in The zone of interest, e il risultato non cambia poi così tanto. Per spingersi infine ben più in là.
L’ultimo film dell’autore di Under the Skin (2013), vincitore del Grand Prix della Giuria a Cannes, esplora questa complicità col male con precisione millimetrica e nel luogo che di questo male è la manifestazione più nota. Appena oltre le mura di Auschwitz, i signori Rudolf (Christian Friedel) e Hedwig Höß (Sandra Huller) coltivano un idillio familiare all’interno dei confini della loro bella dimora. Il giardino curatissimo, una piccola piscina con tanto di scivolo, un patio in cui rilassarsi, una piccola serra perfettamente in funzione, la riva di un fiume a pochi passi dove condurre un picnic. Il film si apre proprio su quest’ultima scena: l’allegra famigliola che se la gode, in campo lungo e inquadratura fissa. Un quadro impressionista di respiro elegiaco, bucolico, pastorale. Hedwig è eccellente nel condurre l’economia domestica. D’altra parte, il marito Rudolf, che del campo di concentramento accanto è il direttore, è impegnato a studiare nuovi forni dalla produttività ancora superiore invitando nel suo salotto gli scienziati migliori che la Germania nazista abbia da offrire.

Glazer compone il microcosmo di Rudolf e Hedwig utilizzando il dispositivo come un bisturi sterilizzato che taglia la carne anestetizzata del dramma. Riprese cliniche, fredde, geometriche, e l’assenza di primi piani per non far cadere le immagini nello scacco empatico, nell’accesso emotivo. Sia chiaro: la scelta e l’esito non sono quelle di una spersonalizzazione dello sguardo. La presa di posizione è al contrario evidente. Il montaggio associa le immagini dell’idillio in giardino a un controcampo che non ne rompe le forme, ma insieme dà conto di un contraltare: sullo sfondo mostra una parete, cioè le mura del campo di concentramento. Serra l’orizzonte su questo impedimento. Qualche volta ci viene concessa pure la vista della ciminiera, in funzione di giorno e di notte, altre volte udiamo urla, spari isolati, lamenti. Non siamo davanti al dolore degli altri. La vista orrorifica è negata in favore di una collocazione del dispositivo all’interno degli spazi che registrando, analizzando scientificamente e quindi appiattendo l’immagine su questa sorta di scansione rendicontativa, routinaria degli Höß, rende ben più evidenti le punte, gli elementi spigolosi, le rotture.
Ecco, la manipolazione e l’elaborazione di uno sguardo problematico. Se il fuoricampo e i lamenti di là dal muro danno conto di quella complicità à la Fuller, come detto in apertura, vi sono altri elementi che amplificano di molto la qualità dialettica dell’immagine. Inevitabile allora pensare alla traccia audio che compone, abita il fondo oscuro di queste sequenze, dall’inizio alla fine: un rumore sordo e costante che si apre sul nero e al nero torna. Soltanto ingaggiando un confronto critico, problematizzando la visione e attraversandola, comprendiamo in ultima analisi che quel suono è prodotto dai forni che bruciano corpi incessantemente. Ed essendo tutto suturato sulla proposizione della complicità morale tra lo sguardo e il male prodotto, allora al bene non può che spettare un’alcova, un’immagine rovesciata, cioè un’immagine al negativo, prodotta nell’oscurità tramite una videocamera termica: quella di una bambina che di notte aiuta come può gli ebrei, nascondendo mele lungo i campi da lavoro.
La qualità della manipolazione da parte di Glazer è tanto fine e appuntita da tagliare la superficie labile della banalità e semplicità del male, mostrando quindi la sua bulimia ingiuriosa, l’acidità intestina. Di là dall’idillio, allora, Hedwig minaccia e si accanisce contro le cameriere, mentre Rudolf letteralmente vomita la propria responsabilità, quanto ha sapientemente elaborato in vista di un più efficiente genocidio. L’Olocausto al cinema non ha mai avuto questa forma. Non è mai stato il luogo di un’immagine così poco risolutiva, dirimente, di sostanza tanto porosa e insieme caustica. Un’immagine che sembra il frutto di spinte incompossibili e che insieme è di enorme fertilità. Una vera sintesi di cinema.
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